53 a.C.
Un principe Gallo di nome Ambiorige fomentò diverse rivolte contro i Romani che stavano invadendo le libere terre della Gallia. Diverse tribù si unirono al principe per combattere contro gli invasori: Treviri, Menapi, Carnuti, Senoni ed Eburoni. Cesare, presa alla sprovvista da questa rivolta, dovette riorganizzare l’esercito per sedarla in tempi brevi; i Galli furono in grado di ottenere delle vittorie, tuttavia Cesare non si lasciò demoralizzare e contrattaccò con violenza, razziando con crudeltà i Menapi e sottomettendo gli altri ribelli.
Ambiorige non era un rivoltoso come altri, egli era astuto come una volpe e aggressivo come un orso affamato. Con forza attaccava i legionari insieme ad un manipolo di uomini e con rapidità fuggiva nelle terre selvagge. Gli attacchi saltuari di Ambiorige, pur non essendo una minaccia reale, erano fastidiosi per Cesare, che stava perdendo la pazienza nel continuare a dare la caccia a quell’uomo. Più il tempo passava più lei diventava violenta. Un giorno fece flagellare pubblicamente cinque presunti ribelli e poi li fece giustiziare con estrema brutalità per vendicare la morte di alcuni suoi legionari.
La crudeltà di Cesare divenne nota in tutta la Gallia ed Ambiorige divenne sempre più popolare fra i ribelli, ma commise un solo errore: diede troppa fiducia ai Germani. Alcune della Germania erano ben liete di aiutare i Romani e furono informatori di quella terra a rivelare che Ambiorige, nonostante i suoi diversi spostamenti, sempre faceva ritorno a casa fra gli Eburoni. Erano proprio gli Eburoni a proteggere Ambiorige, erano loro a fornire il maggiore contributo bellico ed era nella loro tribù che vivevano i figli e la moglie di lui.
"Se vuole continuare a combattere, così sia, ma io impartirò lui una lezione che mai si dimenticherà."
Cesare circondò il villaggio degli Eburoni, con una battaglia veloce distrusse l’esercito nemico, finiti gli scontri, tuttavia, le legioni rimasero in loco. Se fosse stato un villaggio qualsiasi, Cesare, avrebbe accettato gli schiavi e le ricchezze del posto. Ma quello non era un villaggio qualsiasi. Con la sconfitta dell’esercito a difesa della tribù, Cesare, ordinò di massacrare ogni singolo abitante di quel posto. I campi e le case vennero bruciate e decine di migliaia di civili vennero ammazzati. Con quella mossa abominevole, Cesare, sterminò un’intera popolazione. Con lo sterminio degli Eburoni anche la lotta di Ambiorige giunse al termine. Il destino del coraggioso ribelle nessuno lo conosce.
"Questo è un addio" disse Diviziaco appena entrato nella tenda di Cesare.
"Te ne vai, quindi?" fece quella domanda senza mostrare segni di sorpresa o tristezza.
"Mi dispiace, ho visto troppa violenza per perdonarti. Ormai ho capito di aver commesso un errore. Tu non sei stata scelta dalle divinità, tu sei solo un mostro che brama la guerra, non posso tollerare la tua presenza. Io tornerò dagli Edui, Cesare, quindi questo è un addio."
"Diviziaco," disse lei prima che lui potesse abbandonare la tenda "Giudicami come desideri, non mi opporrò, ma non commettere l’errore di affrontarmi, non ti conviene."
"E cosa mi conviene? Accettare il tuo dominio? Chinare la testa al tuo passaggio?"
"Puoi fare lo spiritoso quanto vuoi, Diviziaco, ma sai di che cosa sto parlando. Quello che ti conviene fare è abbassare le armi quando sei di fronte a me, perché posso accettare l’opposizione ma non tollero la ribellione. Ti lascerò la possibilità di esprimerti come vorrai, ma ti impedirò di impugnare le armi contro di me."
Lui si girò e domandò:
"Perché?"
"Perché sei mio amico," sorrise con commiserazione "e voglio farti un favore. Se mi affronti sul campo di battaglia sei morto."
52 a.C.
Gli Arverni erano la popolazione più agguerrita della Gallia e alla morte del loro re accettarono di essere comandati da un guerriero la cui fama era nota in tutta la Gallia: Vercingetorige. Il nuovo leader dei Galli spronò le popolazioni, che erano state ingiustamente schiavizzate da Roma, a ribellarsi contro Cesare.
Ormai in Gallia da tanto tempo, Cesare, aveva imparato molte cose sulla cultura del posto e quando venne a sapere della ribellione di Vercingetorige si preoccupò di convocare i capi delle tribù più fedeli e potenti; il suo scopo era palesemente quello di evitare di essere circondata da nemici in ogni fronte. Cesare si rivolse agli Edui, gli storici alleati di Roma, e cercò Diviziaco in particolare ma lui era scomparso, tuttavia al posto suo ricevette Coto, il comandante della cavalleria, Cavarillo, comandante della fanteria, ed Eporedorige, il re degli Edui.
"Mai ci schiereremo contro Roma" disse Coto chinando il capo in presenza di Cesare.
"Questo Vercingetorige è solo un folle, non hai nulla da temere da noi" aggiunse Cavarillo.
L’ultimo a parlare fu il re degli Edui, ed egli disse queste parole a Cesare, guardandola negli occhi:
"Diviziaco, prima di lasciare la tribù e scomparire nella nebbia, mi disse di essere cauto con voi Romani. La vostra forza è encomiabile, nessuno lo può negare, ma essa è seconda solo alla vostra crudeltà. Io so ciò che avete fatto agli Eburoni. Conosco la sorte di quella povera gente e chiedo: quale destino toccherà a noi?"
Dalle espressioni di Coto e Cavarillo si capiva che i due non si associavano alle opinioni del loro sovrano. Cesare, restando pacata nei modi, rispose, garbatamente:
"Il destino del tuo popolo è il medesimo di chiunque è alleato di Roma. Il tuo popolo non ha conosciuto né fame né povertà in questi anni solo grazie a Roma."
"Non nego ciò che mi si presenta davanti agli occhi, Cesare."
"Allora perché sembra che tu abbia dei problemi con noi?"
"Proprio perché non nego i fatti, io temo per la mia gente. Cosa ci sarà concesso fare sotto il dominio di Roma? Sarò ancora rispettato come re o sarò deposto e dimenticato come un comune plebeo? Gli Edui cadranno come gli Eburoni?"
"Sai perfettamente che mai ho minacciato il tuo potere, sei conscio del fatto che non ho fatto altro che salvarvi e sai anche che Diviziaco è un mio caro amico. I tuoi dubbi sono alimentati dalla paura, non dalla razionalità. Gli Eburoni hanno subito un destino meritato. Le loro bravate ‘eroiche’ hanno portato alla loro estinzione. Gli Edui non subiranno mai lo stesso destino."
"Bene," disse Eporedorige "allora, se manterrai questa promessa, da noi non dovrai mai temere nessun tradimento."
Più il tempo passava e più la figura di Vercingetorige diventava potente. I ribelli riuscirono a sconfiggere le legioni di Roma in alcune battaglie e riuscirono a liberare molte tribù; ben presto anche diversi popoli della Germania si allearono alla causa. Cesare, sempre più spaventata dalla minaccia rappresentata da questa figura ribelle che stava aizzando tutta la Gallia contro i Romani, decise di attaccare Vercingetorige ad Avarico; la battaglia aveva lo scopo preciso di porre fine alla ribellione ma i ribelli riuscirono ad evacuare la città e a fare terra bruciata. Vercingetorige sapeva che le legioni avevano bisogno di mangiare e lasciarli morire di fame era il modo più efficace di vincere.
Cesare, però, oltre ad essere spaventata era anche divertita da quel sentimento di paura. Non sapeva come spiegarselo, ma l’idea di avere un nemico così formidabile la faceva sorridere. Se lei avesse sconfitto l’uomo più potente della Gallia allora avrebbe dimostrato la sua forza ai Senatori a Roma.
Ma le cristalline speranze di Cesare si infransero come il vetro quando la sua spia, Baculo, riferì delle informazioni importanti riguardo a Vercingetorige. Baculo, essendo un professionista, aveva preparato una lista con tutte le informazioni ricavate ma Cesare smise di ascoltare dopo la prima cosa detta:
"Vercingetorige è una donna."
Le parole dell’uomo, dopo quell’affermazione, si persero nel silenzio. Cesare, ad occhi aperti, impietrita come una statua, iniziò a sudare e a mordersi l’interno della guancia stringendo, intanto, i pugni; era pronta a far esplodere un grido di rabbia e tristezza ma rimase taciturna ad osservare il vuoto, deglutendo ogni volta che pensava di essere in un sogno.
Finita l’esposizione, Baculo lasciò la tenda. Cesare era da sola. Si alzò. Gli occhi, incollati al nulla, si bagnarono. Con i denti si morse il labbro violentemente e sollevò il capo.
"Cos’è questo?" mormorò con un sorriso penato. Con le mani passò prima sul viso poi fra i capelli tirando un sospiro innervosito. "Cos’è questo? Un gioco? Un maledetto gioco? È questo? Un fottuto gioco? Era la mia occasione di cementare la mia immagine di donna potente, era il momento giusto … e ora … che cos’è? Che conflitto è mai questo? Una battaglia inutile, tempo sprecato, questa terra non è stata capace di darmi un avversario degno di me."
In quel momento la ragazza ebbe come l’impressione di trovarsi in un campo di battaglia circondata solo da cadaveri di legionari e Barbari. In quella breve ma intensa allucinazione vide apparire Diviziaco che stringeva nella mano un piccolo scheletro argentato; l’uomo proferì queste parole:
"Toccherà a te."
"MAI!"
Quell’urlo frantumò l’illusione e Cesare, capendo di essere stata tratta inganno dai suoi sensi, si asciugò le lacrime, prese la sua spada ed uscì dalla tenda decisa a mettere fine alla ribellione.
La ragazza puntò su Gergovia, la capitale degli Arverni, per riuscire a catturare immediatamente Vercingetorige ed ucciderla, mise sotto assedio la città ma il suo piano non partorì i risultati augurati; i soldati di Vercingetorige furono in grado di difendere le mura di pietra con encomiabile coraggio, mentre i legionari venivano uccisi nel tentativo di aprire una breccia nelle difese nemiche. Cesare si rifiutò di concedere la vittoria all’avversaria ed ordinò di continuare l’assedio. Con il calare del sole l’offensiva Romana si fece sempre più debole e in più i messaggeri avvisarono dell’arrivo di alleati.
"Chi? Chi mai vorrebbe aiutare Vercingetorige?" domandò Cesare sbigottita.
Uno dei messaggeri avanzò la risposta:
"Gli Edui."
"Impossibile, loro sono nostri alleati-"
"Non più." Era Tito Labieno. "Hanno attaccato i soldati che avevamo stanziato nei loro villaggi e il loro re ha deciso di appoggiare la causa di Vercingetorige."
"Quindi ora cosa succederà, Labieno?" la ragazza era rimasta traumatizzata da quella terribile notizia.
"Ora? Ora siamo contro la Gallia, Cesare. Tutta la Gallia."
Cesare diede il segnale di ritirarsi ai suoi uomini. La battaglia si concluse con la prima vera sconfitta di Gaio Giulio Cesare in Gallia. Vercingetorige aveva sconfitto gli invasori.
Dopo Gergovia sempre più tribù si schierarono con Vercingetorige e in poco tempo gran parte della Gallia osteggiò Cesare. La leader della ribellione aveva radunato tutte le tribù: Arverni, Ambivareti, Aulerci, Brannovici, Blannovi, Segusiavi, Eleuteti, Cadurci, Gabali, Vellavi, Sequani, Senoni, Biturigi, Ruteni, Carnuti, Bellovaci, Lemovici, Turoni, Parisi, Elvezi, Suessioni, Ambiani, Petrocori, Nervi, Morini, Nitiobrogi, Cenomani, Veliocassi, Viromandui, Andi, Rauraci, Redoni, Ambibari, Caleti, Veneti, Lessovi, Venelli e infine gli Edui. Tutti coloro che erano stati sconfitti e sottomessi da Cesare si stavano preparando per la resa dei conti.
La notte che precedette l’ultima battaglia venne principiata con un momento di pura passione fra Cesare e Tito Labieno, il primo fra i due; in quella danza carnale la ragazza smorzò l’ansia invece di ricercare l’amore e al risveglio, sul letto nella tenda, lei si stupì del fatto che l’alba non fosse ancora giunta. Labieno la stava abbracciando e lei dovette spostare delicatamente le braccia di lui per riuscire ad alzarsi. Si allontanò dal letto in punta di piedi e procedette a vestirsi.
"Qualcosa … non va?" domandò Labieno, sbadigliando.
"Scusami, non volevo svegliarti" rispose lei, sorridendo.
"Non volevi neanche dormire. Sei ancora preoccupata per quello che accadrà domani?"
"Come posso non esserlo? Non ho mai affrontato nulla di simile nella mia vita e adesso, dopo tutto quello che ho fatto per riuscire a realizzare il mio sogno, tutti i miei incubi si stanno realizzando. Aveva ragione Diviziaco."
"No, ti sbagli. Quel druido non aveva ragione. Egli pensava che soltanto facendo affidamento su Crocea Mors tu saresti stata capace di sconfiggere i tuoi nemici, invece tu hai dimostrato che si sbagliava. Tu sei una rarità, Cesare, sei la donna più intelligente, più forte e più bella che io abbia mai conosciuto. Non lasciare che le parole di quel druido ti suggestionino."
"Una cosa," si voltò verso di lui "non hai mai dato una tua opinione riguardo alla mia scelta di abbandonare Crocea Mors."
"Che vuoi che ti dica? Ho visto i suoi poteri miracolosi ma solo un discendente di Romolo può usarla, quindi solo tu o un membro della tua famiglia può impugnare quell’arma. Il fatto che quella lama si trovi in Britannia non mi interessa così tanto, nessuno di quei selvaggi può impugnare la spada di Roma."
La ragazza, sentite quelle parole, tornò sul letto e baciò Labieno.
"Ti ringrazio, amico mio."
Alesia. Una bellissima città della Gallia con alte mura di pietra difese dai più valorosi guerrieri scelti da Vercingetorige. Con il sole nascente i Romani giunsero davanti alla città e Cesare non ordinò subito l’assedio, stavolta aveva in mente di concludere la guerra una volta per tutte, così disse ai suoi soldati di allestire una doppia linea di fortificazione per oltre diciassette chilometri intorno alla città. Questa meraviglia di ingegneria militare aveva come scopo quello di intrappolare Vercingetorige e allo stesso tempo quello di impedire ai rinforzi di colpire le legioni da dietro.
Con lo scontrarsi dei primi schieramenti Cesare osservò che i soldati ribelli erano determinati ad abbattere la fortificazione, per questa ragione evitavano di combattere troppo a lungo con i legionari. Era chiaro che Vercingetorige non avesse intenzione di rimanere ad Alesia.
Le battaglie davanti alla città iniziavano all’alba e si concludevano verso il tramonto. La notte veniva usata da entrambe le fazioni per schierare le spie e sabotare le difese avversarie. Solo una volta Vercingetorige tentò un attacco notturno con la cavalleria che però fallì miseramente a causa degli abili arcieri Romani.
I giorni passavano e le scorte di cibo si esaurivano sia per i Romani che per i Galli dentro Alesia. La fame mise entrambe le parti in condizioni davvero ardue ma nessuno dei due capi aveva intenzione di cedere. Vercingetorige arrivò persino ad esiliare dalla città donne e bambini per lasciare il cibo ai suoi soldati; quelle povere anime vennero lasciate morire fame e nessuna delle due comandanti si preoccupò delle loro vite. Ciò che contava davvero per entrambe era sconfiggere l’avversaria.
Il destino della campagna in Gallia raggiunse un bivio quando giunsero i rinforzi di Vercingetorige. Fu allora che la tempra delle legioni venne davvero messa alla prova. Le forze ribelli attaccarono contemporaneamente su due fronti e Cesare continuava a saltare di battaglia in battaglia fornendo supporto ad ogni legionario. La fortezza non doveva cadere. Grazie al suo carisma, Cesare, fu in grado di incitare i soldati a dare il massimo, a dare prova del loro valore; i Galli, con la loro forza bruta, erano capaci di ammazzare i legionari con facilità e per questo la ragazza ordinò ai suoi uomini di spostare la cavalleria e farla uscire dal retro.
Vercingetorige, vedendo i legionari a cavallo ordinò ai suoi uomini di tornare nella città; la paura di essere circondata ebbe la meglio sul suo cuore di fuoco; con questo ritrovato vantaggio, Cesare, diede l’ordine di respingere i rinforzi nemici. Nessuno venne lasciato in vita.
Vercingetorige non poté accettare la sconfitta. Solo un’ultima volta tentò di attaccare le difese Romane ma dovette ordinare l’ennesima ritirata. Avvilita e affamata, Vercingetorige, dovette accettare la resa. La guerriera che aveva acceso la miccia della più grande ribellione contro i Romani entrò a cavallo, con la testa china, e gettò le sue armi ai piedi di Cesare.
"Hai vinto. La mia vita è tua."
Vercingetorige venne legata ai polsi e condotta nella tenda di Cesare dove le due donne vennero lasciate sole.
"Prego accomodati, Vercingetorige, spero che non ti dispiaccia fare due chiacchiere in privato con la persona che hai cercato di uccidere. Non ci siamo mai presentate: io sono Gaio Giulio Cesare. Piacere di conoscerti."
"So chi sei. Non ti rispetto in nessun modo, Romana. Tu e le tue legioni state opprimendo la mia gente, la povera gente della Gallia che a voi non ha mai fatto nessun male. Depredate le nostre terre, schiavizzate la nostra gente e massacrate gli innocenti. Persone come te non meritano il mio rispetto perché so che quelle come te cercano solo il potere."
"Non cerco il potere, io creo il potere" corresse Cesare con un cenno di dita. "Tu e la tua gente avete combattuto per la ‘libertà’ ma so che sei stata nominata regina, giusto? Sei riuscita ad unire la Gallia contro di noi, un atto davvero encomiabile ma dubito che tu non abbia mai pensato al futuro di una simile alleanza. Tu, che hai unito diverse tribù, avresti davvero gettato tutto nel fuoco con la sconfitta dei Romani o avresti cercato di porre fine a tutte le guerre interne che hanno da sempre creato sofferenza?"
"Di cosa stai parlando? Mi stai paragonando a te? Tu osi paragonarmi a voi invasori?!"
"Più o meno." Cesare prese una sedia e si sedette davanti alla sua rivale per guardarla negli occhi e le disse, con un ghigno: "La libertà porta a pigrizia, violenza e avidità. Un aristocratico a Roma ed un aristocratico in Gallia ragionano allo stesso modo perché sono troppo liberi. Pensaci: l’aristocrazia di Roma voleva consegnarmi ai Germani mentre l’aristocrazia della Gallia ha consegnato te a me. Non trovi che sia curiosa la somiglianza? La libertà è sopravalutata. L’esigenza primaria di ogni essere umano non è la libertà ma la pace da cui segue l’ordine e da cui consegue la felicità e quindi il risultato è il progresso, la civilizzazione."
"Parli come un tiranno. Le tue parole sono velenose, Cesare."
"Lo sono davvero?"
"La libertà è il diritto di ogni popolo. Ogni persona e ogni tribù merita la libertà e l’indipendenza. Questi valori possono portare la pace se si è disposti a comunicare invece che a lottare. Quello che ho fatto io è stato usare la voce non l’arma, così sono riuscita ad unire le tribù contro di te. Non ho sottomesso nessuno."
"Ma proprio perché io ero il nemico comune loro si sono uniti a te, se io non ci fossi stata le tue parole non avrebbero raggiunto nessuno. E poi … di quale libertà parli quando citi le tribù? Ogni tribù ha le sue leggi, no? Ogni tribù ha dei capi, no? Quindi ogni tribù limita a modo suo la libertà perché tutti sanno che chi gode di troppa libertà crea solo caos. È come la grammatica: solo seguendo le regole le proposizioni hanno un senso e possono essere comprese da tutti, senza regole tutto è soggettivo e niente è certo e quindi si perde la coesione. Io credo in un mondo dove la libertà è soggetta a restrizioni, non troppo severe ma comunque esistenti. Io credo nella legge e nelle regole che orientano una società perfetta."
"E la gente che hai massacrato?" domandò Vercingetorige.
"Cosa?"
"Anche loro fanno parte di questo tuo mondo con delle ‘regole’? Le tue ‘regole’ prevedevano lo sterminio degli Eburoni e di tutti quegli innocenti che tu hai ucciso? Sono queste le ‘regole’ in cui tu credi?"
"Non cammini senza schiacciare qualche formica. Ma dubito che tu sia così intelligente da capire queste cose, per questo non sei fatta per la vita politica: sei troppo ingenua."
"Come immaginavo … parli tanto di ‘regole’ e ‘legge’ ma alla fine ciò che per te conta è avere potere ed usarlo per uccidere le persone più deboli."
"Questa è l’opinione che hai di me, Vercingetorige? Forse potresti anche avere ragione, ma che differenza farebbe? Anche se io avessi le idee più malvagie il mondo intero non avrebbe comunque il potere di fermarmi. Qualsiasi cosa faccio … io vinco. Io vinco sempre."
"Hai ragione, Cesare … ormai non ha più importanza. Ammazzami davanti ai Romani, esibiscimi pure come il tuo premio personale e facciamola finita. Non ho intenzione di sprecare il mio fiato per te."
Allora Cesare, con un sorriso perfido, disse:
"Non è così semplice, ragazza mia, ci sono dei problemi. Gli aristocratici mi hanno promesso un altro uomo, il più forte della tua tribù, egli verrà a portato a Roma e sarà Vercingetorige."
"Cosa?! Perché? Io sono qui! Sono qui! Uccidimi e facciamola finita!" urlò la ragazza, arrabbiata.
"Sei una donna, come me, e a Roma sei ritenuta debole e incapace di cambiare il mondo, come me. Ma proprio perché sei come me sei un ostacolo a me. Se io dovessi tornare a Roma esibendo la donna più forte della Gallia nessuno dei miei rivali prenderebbe sul serio la mia vittoria, ho bisogno di sconfiggere l’uomo più forte della Gallia per essere riconosciuta da quegli avidi, pigri e golosi uomini che controllano la Repubblica. Il tuo sacrificio, il sacrificio del tuo corpo e della tua memoria, servirà a rendermi immortale."
Vercingetorige sputò in faccia a Cesare e disse, con un tono sprezzante:
"Sei una vergogna. Sarai anche intelligente ma sei il peggior essere umano di sempre."
"Lo so." Cesare prese un coltello e pugnalò Vercingetorige al cuore. "Peccato che non abbia importanza. Ora muori, mia nemesi, muori sapendo che il destino della Gallia è nelle mie mani."
Un principe Gallo di nome Ambiorige fomentò diverse rivolte contro i Romani che stavano invadendo le libere terre della Gallia. Diverse tribù si unirono al principe per combattere contro gli invasori: Treviri, Menapi, Carnuti, Senoni ed Eburoni. Cesare, presa alla sprovvista da questa rivolta, dovette riorganizzare l’esercito per sedarla in tempi brevi; i Galli furono in grado di ottenere delle vittorie, tuttavia Cesare non si lasciò demoralizzare e contrattaccò con violenza, razziando con crudeltà i Menapi e sottomettendo gli altri ribelli.
Ambiorige non era un rivoltoso come altri, egli era astuto come una volpe e aggressivo come un orso affamato. Con forza attaccava i legionari insieme ad un manipolo di uomini e con rapidità fuggiva nelle terre selvagge. Gli attacchi saltuari di Ambiorige, pur non essendo una minaccia reale, erano fastidiosi per Cesare, che stava perdendo la pazienza nel continuare a dare la caccia a quell’uomo. Più il tempo passava più lei diventava violenta. Un giorno fece flagellare pubblicamente cinque presunti ribelli e poi li fece giustiziare con estrema brutalità per vendicare la morte di alcuni suoi legionari.
La crudeltà di Cesare divenne nota in tutta la Gallia ed Ambiorige divenne sempre più popolare fra i ribelli, ma commise un solo errore: diede troppa fiducia ai Germani. Alcune della Germania erano ben liete di aiutare i Romani e furono informatori di quella terra a rivelare che Ambiorige, nonostante i suoi diversi spostamenti, sempre faceva ritorno a casa fra gli Eburoni. Erano proprio gli Eburoni a proteggere Ambiorige, erano loro a fornire il maggiore contributo bellico ed era nella loro tribù che vivevano i figli e la moglie di lui.
"Se vuole continuare a combattere, così sia, ma io impartirò lui una lezione che mai si dimenticherà."
Cesare circondò il villaggio degli Eburoni, con una battaglia veloce distrusse l’esercito nemico, finiti gli scontri, tuttavia, le legioni rimasero in loco. Se fosse stato un villaggio qualsiasi, Cesare, avrebbe accettato gli schiavi e le ricchezze del posto. Ma quello non era un villaggio qualsiasi. Con la sconfitta dell’esercito a difesa della tribù, Cesare, ordinò di massacrare ogni singolo abitante di quel posto. I campi e le case vennero bruciate e decine di migliaia di civili vennero ammazzati. Con quella mossa abominevole, Cesare, sterminò un’intera popolazione. Con lo sterminio degli Eburoni anche la lotta di Ambiorige giunse al termine. Il destino del coraggioso ribelle nessuno lo conosce.
"Questo è un addio" disse Diviziaco appena entrato nella tenda di Cesare.
"Te ne vai, quindi?" fece quella domanda senza mostrare segni di sorpresa o tristezza.
"Mi dispiace, ho visto troppa violenza per perdonarti. Ormai ho capito di aver commesso un errore. Tu non sei stata scelta dalle divinità, tu sei solo un mostro che brama la guerra, non posso tollerare la tua presenza. Io tornerò dagli Edui, Cesare, quindi questo è un addio."
"Diviziaco," disse lei prima che lui potesse abbandonare la tenda "Giudicami come desideri, non mi opporrò, ma non commettere l’errore di affrontarmi, non ti conviene."
"E cosa mi conviene? Accettare il tuo dominio? Chinare la testa al tuo passaggio?"
"Puoi fare lo spiritoso quanto vuoi, Diviziaco, ma sai di che cosa sto parlando. Quello che ti conviene fare è abbassare le armi quando sei di fronte a me, perché posso accettare l’opposizione ma non tollero la ribellione. Ti lascerò la possibilità di esprimerti come vorrai, ma ti impedirò di impugnare le armi contro di me."
Lui si girò e domandò:
"Perché?"
"Perché sei mio amico," sorrise con commiserazione "e voglio farti un favore. Se mi affronti sul campo di battaglia sei morto."
52 a.C.
Gli Arverni erano la popolazione più agguerrita della Gallia e alla morte del loro re accettarono di essere comandati da un guerriero la cui fama era nota in tutta la Gallia: Vercingetorige. Il nuovo leader dei Galli spronò le popolazioni, che erano state ingiustamente schiavizzate da Roma, a ribellarsi contro Cesare.
Ormai in Gallia da tanto tempo, Cesare, aveva imparato molte cose sulla cultura del posto e quando venne a sapere della ribellione di Vercingetorige si preoccupò di convocare i capi delle tribù più fedeli e potenti; il suo scopo era palesemente quello di evitare di essere circondata da nemici in ogni fronte. Cesare si rivolse agli Edui, gli storici alleati di Roma, e cercò Diviziaco in particolare ma lui era scomparso, tuttavia al posto suo ricevette Coto, il comandante della cavalleria, Cavarillo, comandante della fanteria, ed Eporedorige, il re degli Edui.
"Mai ci schiereremo contro Roma" disse Coto chinando il capo in presenza di Cesare.
"Questo Vercingetorige è solo un folle, non hai nulla da temere da noi" aggiunse Cavarillo.
L’ultimo a parlare fu il re degli Edui, ed egli disse queste parole a Cesare, guardandola negli occhi:
"Diviziaco, prima di lasciare la tribù e scomparire nella nebbia, mi disse di essere cauto con voi Romani. La vostra forza è encomiabile, nessuno lo può negare, ma essa è seconda solo alla vostra crudeltà. Io so ciò che avete fatto agli Eburoni. Conosco la sorte di quella povera gente e chiedo: quale destino toccherà a noi?"
Dalle espressioni di Coto e Cavarillo si capiva che i due non si associavano alle opinioni del loro sovrano. Cesare, restando pacata nei modi, rispose, garbatamente:
"Il destino del tuo popolo è il medesimo di chiunque è alleato di Roma. Il tuo popolo non ha conosciuto né fame né povertà in questi anni solo grazie a Roma."
"Non nego ciò che mi si presenta davanti agli occhi, Cesare."
"Allora perché sembra che tu abbia dei problemi con noi?"
"Proprio perché non nego i fatti, io temo per la mia gente. Cosa ci sarà concesso fare sotto il dominio di Roma? Sarò ancora rispettato come re o sarò deposto e dimenticato come un comune plebeo? Gli Edui cadranno come gli Eburoni?"
"Sai perfettamente che mai ho minacciato il tuo potere, sei conscio del fatto che non ho fatto altro che salvarvi e sai anche che Diviziaco è un mio caro amico. I tuoi dubbi sono alimentati dalla paura, non dalla razionalità. Gli Eburoni hanno subito un destino meritato. Le loro bravate ‘eroiche’ hanno portato alla loro estinzione. Gli Edui non subiranno mai lo stesso destino."
"Bene," disse Eporedorige "allora, se manterrai questa promessa, da noi non dovrai mai temere nessun tradimento."
Più il tempo passava e più la figura di Vercingetorige diventava potente. I ribelli riuscirono a sconfiggere le legioni di Roma in alcune battaglie e riuscirono a liberare molte tribù; ben presto anche diversi popoli della Germania si allearono alla causa. Cesare, sempre più spaventata dalla minaccia rappresentata da questa figura ribelle che stava aizzando tutta la Gallia contro i Romani, decise di attaccare Vercingetorige ad Avarico; la battaglia aveva lo scopo preciso di porre fine alla ribellione ma i ribelli riuscirono ad evacuare la città e a fare terra bruciata. Vercingetorige sapeva che le legioni avevano bisogno di mangiare e lasciarli morire di fame era il modo più efficace di vincere.
Cesare, però, oltre ad essere spaventata era anche divertita da quel sentimento di paura. Non sapeva come spiegarselo, ma l’idea di avere un nemico così formidabile la faceva sorridere. Se lei avesse sconfitto l’uomo più potente della Gallia allora avrebbe dimostrato la sua forza ai Senatori a Roma.
Ma le cristalline speranze di Cesare si infransero come il vetro quando la sua spia, Baculo, riferì delle informazioni importanti riguardo a Vercingetorige. Baculo, essendo un professionista, aveva preparato una lista con tutte le informazioni ricavate ma Cesare smise di ascoltare dopo la prima cosa detta:
"Vercingetorige è una donna."
Le parole dell’uomo, dopo quell’affermazione, si persero nel silenzio. Cesare, ad occhi aperti, impietrita come una statua, iniziò a sudare e a mordersi l’interno della guancia stringendo, intanto, i pugni; era pronta a far esplodere un grido di rabbia e tristezza ma rimase taciturna ad osservare il vuoto, deglutendo ogni volta che pensava di essere in un sogno.
Finita l’esposizione, Baculo lasciò la tenda. Cesare era da sola. Si alzò. Gli occhi, incollati al nulla, si bagnarono. Con i denti si morse il labbro violentemente e sollevò il capo.
"Cos’è questo?" mormorò con un sorriso penato. Con le mani passò prima sul viso poi fra i capelli tirando un sospiro innervosito. "Cos’è questo? Un gioco? Un maledetto gioco? È questo? Un fottuto gioco? Era la mia occasione di cementare la mia immagine di donna potente, era il momento giusto … e ora … che cos’è? Che conflitto è mai questo? Una battaglia inutile, tempo sprecato, questa terra non è stata capace di darmi un avversario degno di me."
In quel momento la ragazza ebbe come l’impressione di trovarsi in un campo di battaglia circondata solo da cadaveri di legionari e Barbari. In quella breve ma intensa allucinazione vide apparire Diviziaco che stringeva nella mano un piccolo scheletro argentato; l’uomo proferì queste parole:
"Toccherà a te."
"MAI!"
Quell’urlo frantumò l’illusione e Cesare, capendo di essere stata tratta inganno dai suoi sensi, si asciugò le lacrime, prese la sua spada ed uscì dalla tenda decisa a mettere fine alla ribellione.
La ragazza puntò su Gergovia, la capitale degli Arverni, per riuscire a catturare immediatamente Vercingetorige ed ucciderla, mise sotto assedio la città ma il suo piano non partorì i risultati augurati; i soldati di Vercingetorige furono in grado di difendere le mura di pietra con encomiabile coraggio, mentre i legionari venivano uccisi nel tentativo di aprire una breccia nelle difese nemiche. Cesare si rifiutò di concedere la vittoria all’avversaria ed ordinò di continuare l’assedio. Con il calare del sole l’offensiva Romana si fece sempre più debole e in più i messaggeri avvisarono dell’arrivo di alleati.
"Chi? Chi mai vorrebbe aiutare Vercingetorige?" domandò Cesare sbigottita.
Uno dei messaggeri avanzò la risposta:
"Gli Edui."
"Impossibile, loro sono nostri alleati-"
"Non più." Era Tito Labieno. "Hanno attaccato i soldati che avevamo stanziato nei loro villaggi e il loro re ha deciso di appoggiare la causa di Vercingetorige."
"Quindi ora cosa succederà, Labieno?" la ragazza era rimasta traumatizzata da quella terribile notizia.
"Ora? Ora siamo contro la Gallia, Cesare. Tutta la Gallia."
Cesare diede il segnale di ritirarsi ai suoi uomini. La battaglia si concluse con la prima vera sconfitta di Gaio Giulio Cesare in Gallia. Vercingetorige aveva sconfitto gli invasori.
Dopo Gergovia sempre più tribù si schierarono con Vercingetorige e in poco tempo gran parte della Gallia osteggiò Cesare. La leader della ribellione aveva radunato tutte le tribù: Arverni, Ambivareti, Aulerci, Brannovici, Blannovi, Segusiavi, Eleuteti, Cadurci, Gabali, Vellavi, Sequani, Senoni, Biturigi, Ruteni, Carnuti, Bellovaci, Lemovici, Turoni, Parisi, Elvezi, Suessioni, Ambiani, Petrocori, Nervi, Morini, Nitiobrogi, Cenomani, Veliocassi, Viromandui, Andi, Rauraci, Redoni, Ambibari, Caleti, Veneti, Lessovi, Venelli e infine gli Edui. Tutti coloro che erano stati sconfitti e sottomessi da Cesare si stavano preparando per la resa dei conti.
La notte che precedette l’ultima battaglia venne principiata con un momento di pura passione fra Cesare e Tito Labieno, il primo fra i due; in quella danza carnale la ragazza smorzò l’ansia invece di ricercare l’amore e al risveglio, sul letto nella tenda, lei si stupì del fatto che l’alba non fosse ancora giunta. Labieno la stava abbracciando e lei dovette spostare delicatamente le braccia di lui per riuscire ad alzarsi. Si allontanò dal letto in punta di piedi e procedette a vestirsi.
"Qualcosa … non va?" domandò Labieno, sbadigliando.
"Scusami, non volevo svegliarti" rispose lei, sorridendo.
"Non volevi neanche dormire. Sei ancora preoccupata per quello che accadrà domani?"
"Come posso non esserlo? Non ho mai affrontato nulla di simile nella mia vita e adesso, dopo tutto quello che ho fatto per riuscire a realizzare il mio sogno, tutti i miei incubi si stanno realizzando. Aveva ragione Diviziaco."
"No, ti sbagli. Quel druido non aveva ragione. Egli pensava che soltanto facendo affidamento su Crocea Mors tu saresti stata capace di sconfiggere i tuoi nemici, invece tu hai dimostrato che si sbagliava. Tu sei una rarità, Cesare, sei la donna più intelligente, più forte e più bella che io abbia mai conosciuto. Non lasciare che le parole di quel druido ti suggestionino."
"Una cosa," si voltò verso di lui "non hai mai dato una tua opinione riguardo alla mia scelta di abbandonare Crocea Mors."
"Che vuoi che ti dica? Ho visto i suoi poteri miracolosi ma solo un discendente di Romolo può usarla, quindi solo tu o un membro della tua famiglia può impugnare quell’arma. Il fatto che quella lama si trovi in Britannia non mi interessa così tanto, nessuno di quei selvaggi può impugnare la spada di Roma."
La ragazza, sentite quelle parole, tornò sul letto e baciò Labieno.
"Ti ringrazio, amico mio."
Alesia. Una bellissima città della Gallia con alte mura di pietra difese dai più valorosi guerrieri scelti da Vercingetorige. Con il sole nascente i Romani giunsero davanti alla città e Cesare non ordinò subito l’assedio, stavolta aveva in mente di concludere la guerra una volta per tutte, così disse ai suoi soldati di allestire una doppia linea di fortificazione per oltre diciassette chilometri intorno alla città. Questa meraviglia di ingegneria militare aveva come scopo quello di intrappolare Vercingetorige e allo stesso tempo quello di impedire ai rinforzi di colpire le legioni da dietro.
Con lo scontrarsi dei primi schieramenti Cesare osservò che i soldati ribelli erano determinati ad abbattere la fortificazione, per questa ragione evitavano di combattere troppo a lungo con i legionari. Era chiaro che Vercingetorige non avesse intenzione di rimanere ad Alesia.
Le battaglie davanti alla città iniziavano all’alba e si concludevano verso il tramonto. La notte veniva usata da entrambe le fazioni per schierare le spie e sabotare le difese avversarie. Solo una volta Vercingetorige tentò un attacco notturno con la cavalleria che però fallì miseramente a causa degli abili arcieri Romani.
I giorni passavano e le scorte di cibo si esaurivano sia per i Romani che per i Galli dentro Alesia. La fame mise entrambe le parti in condizioni davvero ardue ma nessuno dei due capi aveva intenzione di cedere. Vercingetorige arrivò persino ad esiliare dalla città donne e bambini per lasciare il cibo ai suoi soldati; quelle povere anime vennero lasciate morire fame e nessuna delle due comandanti si preoccupò delle loro vite. Ciò che contava davvero per entrambe era sconfiggere l’avversaria.
Il destino della campagna in Gallia raggiunse un bivio quando giunsero i rinforzi di Vercingetorige. Fu allora che la tempra delle legioni venne davvero messa alla prova. Le forze ribelli attaccarono contemporaneamente su due fronti e Cesare continuava a saltare di battaglia in battaglia fornendo supporto ad ogni legionario. La fortezza non doveva cadere. Grazie al suo carisma, Cesare, fu in grado di incitare i soldati a dare il massimo, a dare prova del loro valore; i Galli, con la loro forza bruta, erano capaci di ammazzare i legionari con facilità e per questo la ragazza ordinò ai suoi uomini di spostare la cavalleria e farla uscire dal retro.
Vercingetorige, vedendo i legionari a cavallo ordinò ai suoi uomini di tornare nella città; la paura di essere circondata ebbe la meglio sul suo cuore di fuoco; con questo ritrovato vantaggio, Cesare, diede l’ordine di respingere i rinforzi nemici. Nessuno venne lasciato in vita.
Vercingetorige non poté accettare la sconfitta. Solo un’ultima volta tentò di attaccare le difese Romane ma dovette ordinare l’ennesima ritirata. Avvilita e affamata, Vercingetorige, dovette accettare la resa. La guerriera che aveva acceso la miccia della più grande ribellione contro i Romani entrò a cavallo, con la testa china, e gettò le sue armi ai piedi di Cesare.
"Hai vinto. La mia vita è tua."
Vercingetorige venne legata ai polsi e condotta nella tenda di Cesare dove le due donne vennero lasciate sole.
"Prego accomodati, Vercingetorige, spero che non ti dispiaccia fare due chiacchiere in privato con la persona che hai cercato di uccidere. Non ci siamo mai presentate: io sono Gaio Giulio Cesare. Piacere di conoscerti."
"So chi sei. Non ti rispetto in nessun modo, Romana. Tu e le tue legioni state opprimendo la mia gente, la povera gente della Gallia che a voi non ha mai fatto nessun male. Depredate le nostre terre, schiavizzate la nostra gente e massacrate gli innocenti. Persone come te non meritano il mio rispetto perché so che quelle come te cercano solo il potere."
"Non cerco il potere, io creo il potere" corresse Cesare con un cenno di dita. "Tu e la tua gente avete combattuto per la ‘libertà’ ma so che sei stata nominata regina, giusto? Sei riuscita ad unire la Gallia contro di noi, un atto davvero encomiabile ma dubito che tu non abbia mai pensato al futuro di una simile alleanza. Tu, che hai unito diverse tribù, avresti davvero gettato tutto nel fuoco con la sconfitta dei Romani o avresti cercato di porre fine a tutte le guerre interne che hanno da sempre creato sofferenza?"
"Di cosa stai parlando? Mi stai paragonando a te? Tu osi paragonarmi a voi invasori?!"
"Più o meno." Cesare prese una sedia e si sedette davanti alla sua rivale per guardarla negli occhi e le disse, con un ghigno: "La libertà porta a pigrizia, violenza e avidità. Un aristocratico a Roma ed un aristocratico in Gallia ragionano allo stesso modo perché sono troppo liberi. Pensaci: l’aristocrazia di Roma voleva consegnarmi ai Germani mentre l’aristocrazia della Gallia ha consegnato te a me. Non trovi che sia curiosa la somiglianza? La libertà è sopravalutata. L’esigenza primaria di ogni essere umano non è la libertà ma la pace da cui segue l’ordine e da cui consegue la felicità e quindi il risultato è il progresso, la civilizzazione."
"Parli come un tiranno. Le tue parole sono velenose, Cesare."
"Lo sono davvero?"
"La libertà è il diritto di ogni popolo. Ogni persona e ogni tribù merita la libertà e l’indipendenza. Questi valori possono portare la pace se si è disposti a comunicare invece che a lottare. Quello che ho fatto io è stato usare la voce non l’arma, così sono riuscita ad unire le tribù contro di te. Non ho sottomesso nessuno."
"Ma proprio perché io ero il nemico comune loro si sono uniti a te, se io non ci fossi stata le tue parole non avrebbero raggiunto nessuno. E poi … di quale libertà parli quando citi le tribù? Ogni tribù ha le sue leggi, no? Ogni tribù ha dei capi, no? Quindi ogni tribù limita a modo suo la libertà perché tutti sanno che chi gode di troppa libertà crea solo caos. È come la grammatica: solo seguendo le regole le proposizioni hanno un senso e possono essere comprese da tutti, senza regole tutto è soggettivo e niente è certo e quindi si perde la coesione. Io credo in un mondo dove la libertà è soggetta a restrizioni, non troppo severe ma comunque esistenti. Io credo nella legge e nelle regole che orientano una società perfetta."
"E la gente che hai massacrato?" domandò Vercingetorige.
"Cosa?"
"Anche loro fanno parte di questo tuo mondo con delle ‘regole’? Le tue ‘regole’ prevedevano lo sterminio degli Eburoni e di tutti quegli innocenti che tu hai ucciso? Sono queste le ‘regole’ in cui tu credi?"
"Non cammini senza schiacciare qualche formica. Ma dubito che tu sia così intelligente da capire queste cose, per questo non sei fatta per la vita politica: sei troppo ingenua."
"Come immaginavo … parli tanto di ‘regole’ e ‘legge’ ma alla fine ciò che per te conta è avere potere ed usarlo per uccidere le persone più deboli."
"Questa è l’opinione che hai di me, Vercingetorige? Forse potresti anche avere ragione, ma che differenza farebbe? Anche se io avessi le idee più malvagie il mondo intero non avrebbe comunque il potere di fermarmi. Qualsiasi cosa faccio … io vinco. Io vinco sempre."
"Hai ragione, Cesare … ormai non ha più importanza. Ammazzami davanti ai Romani, esibiscimi pure come il tuo premio personale e facciamola finita. Non ho intenzione di sprecare il mio fiato per te."
Allora Cesare, con un sorriso perfido, disse:
"Non è così semplice, ragazza mia, ci sono dei problemi. Gli aristocratici mi hanno promesso un altro uomo, il più forte della tua tribù, egli verrà a portato a Roma e sarà Vercingetorige."
"Cosa?! Perché? Io sono qui! Sono qui! Uccidimi e facciamola finita!" urlò la ragazza, arrabbiata.
"Sei una donna, come me, e a Roma sei ritenuta debole e incapace di cambiare il mondo, come me. Ma proprio perché sei come me sei un ostacolo a me. Se io dovessi tornare a Roma esibendo la donna più forte della Gallia nessuno dei miei rivali prenderebbe sul serio la mia vittoria, ho bisogno di sconfiggere l’uomo più forte della Gallia per essere riconosciuta da quegli avidi, pigri e golosi uomini che controllano la Repubblica. Il tuo sacrificio, il sacrificio del tuo corpo e della tua memoria, servirà a rendermi immortale."
Vercingetorige sputò in faccia a Cesare e disse, con un tono sprezzante:
"Sei una vergogna. Sarai anche intelligente ma sei il peggior essere umano di sempre."
"Lo so." Cesare prese un coltello e pugnalò Vercingetorige al cuore. "Peccato che non abbia importanza. Ora muori, mia nemesi, muori sapendo che il destino della Gallia è nelle mie mani."