lunedì 1 febbraio 2021

[ITA] Capitolo 11 : Cesare contro Roma

50 a.C.

Con la fine della guerra in Gallia, Cesare fece ritorno in Italia sperando di poter festeggiare i suoi trionfi, tuttavia qualcosa di davvero inaspettato accadde. Due anni prima il Senato aveva scelto, con l’appoggio di Catone, Pompeo come consul sine collega (console senza collega). Il Senato odiava Pompeo ma detestava ancora di più Cesare e per questo consegnò al primo ampi poteri. L’alleanza fra Cesare e Pompeo iniziò a frantumarsi.
I senatori volevano privare la ragazza delle sue legioni e toglierle ogni potere politico mentre lei era ancora impegnata nelle guerre in Gallia.
La ragazza venne a sapere dei complotti del Senato ma comunque, per mantenere l’amicizia con Pompeo, appoggiò il consolato di lui.
Con la fine del consolato di Pompeo, i due nuovi consoli anti-cesariani, iniziarono ad agire per togliere a Cesare i suoi domini in Gallia e iniziarono anche ad ordinare le fustigazioni di Barbari che erano nei territori che la ragazza aveva conquistato. Cesare, indignata, si rivolse a Pompeo per trovare un modo per porre fine a queste ingiustizie. Pompeo non fece niente.
Avvenne la frattura.
Inizialmente il Senato, su proposta di Catone, voleva togliere le legioni sia a Pompeo che a Cesare, ma poi i progetti cambiarono; il Senato, per portare avanti una campagna militare contro i Parti, richiese delle legioni e Pompeo, che ne aveva date due a Cesare, le tolse alla ragazza e le diede al Senato. Cesare dovette accettare. Pompeo si stanziò in Spagna con le sue legioni.
Cesare, allora, comunicò al Senato che avrebbe accettato di rinunciare alle sue legioni solo se Pompeo avesse fatto lo stesso. Nessuna risposta.
Ben pochi, in Senato, volevano parlare a favore di Cesare. L’odio nei confronti della ragazza fu così grande che alla fine Catone accettò di far entrare a Roma i soldati di Pompeo con lo scopo di difendere la città.
Pompeo radunò i suoi amici e i nemici di Cesare a Roma. Alla fine il Senato, su pressione di Pompeo, inviò una lettera a Cesare. Le condizioni imposte dal Senato, da Pompeo e da Catone erano molto semplici: i successi di Cesare sarebbero stati riconosciuti e avrebbe avuto un’ampia ricompensa in denaro, tuttavia, avrebbe dovuto rinunciare alle seguenti cose: le legioni; il trionfo; ogni carica politica.
"Vogliono privarmi di ogni cosa" disse Cesare nel suo accampamento sul confine fra la Gallia e la Repubblica Romana. "O rinuncio ad ogni cosa per cui ho combattuto o mi dichiareranno nemico pubblico. Cos’è questo? Uno scherzo del destino? Perché Pompeo mi tradisce? Perché si è alleato a quel vecchio ebete di Catone? Perché il Senato si è messo contro di me? Mi vogliono eliminare dal gioco!"
Insieme a Cesare c’erano Marco Antonio, Gaio Trebonio e Tito Labieno.
"Vogliono vanificare i miei anni in Gallia quegli stolti aristocratici!"
"Cosa facciamo, dunque?" domandò Marco Antonio, visibilmente preoccupato.
"Non ho intenzione di cedere il passo a quegli inutili pezzi di antiquariato, loro vogliono umiliarmi pubblicamente, vogliono costringermi ad accettare le loro condizioni in modo da poter rimanere al potere. Ma io non l’accetto. Non posso accettarlo! Non dopo tutto quello che ho fatto per arrivare fino a questo punto."
"Non sono sicuro che sia una buona idea protestare" suggerì Trebonio.
"Non ti ho mai visto così titubante, hai paura di diventare un traditore?"
"Se rifiutiamo l’offerta del Senato diventeremo tutti traditori, Cesare. Siamo giunti dalla Gallia come eroi, non possiamo varcare le soglie di Roma come traditori della patria, sarebbe un disonore per tutti noi."
"Onore? Cos’è l’onore? Che valore ha l’onore quando la propria dignità viene minacciata da uomini insolenti e ignoranti? Che cosa me ne faccio dell’onore se il mio orgoglio viene ferito da coloro che mai nella vita hanno rischiato! Tieniti caro l’onore, Trebonio; io esigo rispetto! Preferisco essere una traditrice che essere dimenticata."
"Sono con te, Cesare" asserì Marco Antonio.
"Va bene, ma continuo a credere che non sia una buona idea" disse Trebonio.
Rimase Tito Labieno. Lui non disse niente.
"Voi andate," comandò Cesare "voglio restare sola con Labieno."
Gli uomini ubbidirono. Labieno, davanti alla ragazza, sospirò e la guardò con occhi colmi di sfiducia; proferì queste parole:
"Io non ti seguirò."
Cesare non ebbe reazioni esagerate ma  dal suo sguardo si poteva comprendere che era rimasta scioccata da quelle parole.
"Perché? Posso saperlo?"
"Perché non credo in quello che stai facendo. Ho combattuto con te in Gallia, ho condiviso con te felicità e tristezza, ho accettato ogni tua decisione e mai ti ho criticato per i tuoi errori. Ma tu ora vuoi combattere Roma, vuoi tradire la patria in cui credo, e non posso seguirti."
"Quindi sei disposto ad accettare quest’insulto da parte del Senato?"
"Non è una questione di dignità, Cesare, per me è una questione di lealtà. La verità è che tu non sei mai stata veramente leale a qualcosa e ora lo capisco, ora lo vedo con i miei occhi."
"Non posso essere leale ad una patria che mi disprezza."
"Lo capisco ma ti biasimo. Per me la lealtà non ha prezzo. Neanche tu, che sei la donna più forte, più intelligente e più bella che io abbia mai conosciuto, puoi metterti fra me e Roma. Se tu deciderai di avanzare con le legioni sarai la causa di una guerra civile e allora scoppierà il caos che tu tanto detesti. Se davvero ami la legge, se davvero brami l’ordine, accetta la resa e accetta le regole di Roma."
"Le regole di Roma sono sbagliate."
"Non per me. Ecco perché è meglio dirci addio." Labieno si voltò e si diresse verso l’uscita. "Però sappi una cosa, avrai sempre il mio rispetto, amica mia. Addio."
"Addio, Labieno. Abbi cura di te."
Tito Labieno lasciò la tenda di Cesare.

La ragazza a cavallo, davanti al lungo fiume Rubicone, si voltò verso i suoi uomini che l’avevano servita fedelmente in Gallia. Nei loro volti leggeva l’ansia, la preoccupazione e il terrore; lei sapeva di essere sul punto di fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Anche Cesare aveva paura, le sue mani tremavano e i suoi occhi difficilmente guardavano l’orizzonte oltre il quale avrebbe incontrato Roma. Aprì la bocca per dire:
"Dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutte quelle gloriose imprese che ho compiuto, Roma mi tradisce, il Senato si mette contro di me e i miei amici brandiscono le armi per affrontarmi. Dopo anni di guerre in terra straniera è così che vengo ripagata? E perché? Perché sono una donna? Perché in quanto donna ho ottenuto più gloria di ogni singolo uomo di Roma? Perché hanno paura del mio potere? E cosa credete che mi importi? Non sono io a mancare di lealtà, è Roma a mancarne. Roma mi ha sfidato. Non sono stata io. Miei legionari voi avete combattuto insieme a me e avete conquistato insieme a me, con me avete vinto centinaia di migliaia di nemici e siete diventati non solo amici per me, ma fratelli; e quando Roma sputa in faccia a me sputa in faccia anche a voi ed io non posso accettarlo. Mi trattino pure come una criminale, ormai ci sono abituata allo sdegno degli aristocratici, ma non posso tollerare che voi veniate trattati in questo modo! Non avete lottato per niente! Volete davvero essere insultati da quegli uomini arroganti?"
I legionari urlarono all’unisono:
"NO! NOI NON SAREMO INSULTATI!"
"Esatto! E allora cosa farete? Vi arrenderete? Vi prostrerete  ai piedi di ricchi uomini senza onore oppure lotterete per difendere il vostro orgoglio e la vostra dignità? Sarete vermi o lupi? Cosa farete?"
"NOI COMBATTEREMO!"
"Così sia, miei legionari, il mio destino è nelle vostre mani e il vostro destino è nelle mie. Noi vivremo come eroi o moriremo come traditori, una volta oltrepassato il fiume non si potrà più tornare indietro. Questa è una scommessa che stiamo facendo con gli déi … alea iacta est."
In testa alle sue legioni attraversò il Rubicone e così facendo si preparò ad affrontare il Mondo.

48 a.C.

Pompeo, sapendo dell’arrivo di Cesare, decise di abbandonare Roma con quei senatori che erano dalla sua parte, mentre i cesariani rimasero nella città per accogliere la ragazza e farsi aiutare da lei per porre fine alle diverse ribellioni che stavano avendo luogo nella penisola italica. L’ordine di Cesare ai suoi uomini fu chiarissimo: niente spargimenti di sangue inutili. La ragazza non voleva massacrare i Romani, voleva costringerli alla resa con ogni mezzo possibile.
L’anno precedente Cesare era stata nominata dictator e quindi aveva ottenuto dei poteri straordinari che usò per riconciliare i pompeiani e i cesariani; ma mentre faceva ciò dava la caccia a Pompeo, il quale si era rifugiato a Durazzo insieme alle sue legioni.
Cesare era sicura di riuscire a sconfiggere Pompeo a Durazzo ma non voleva ucciderlo bensì voleva indurlo alla resa in modo da porre fine alla guerra civile che stava dilaniando Roma. Insieme a Marco Antonio, Cesare, raggiunse Durazzo e combatté contro Pompeo ma incredibilmente venne sconfitta da quest’ultimo, tuttavia Pompeo, essendo poco lungimirante e non molto furbo, non approfittò mai di quella vittoria e lasciò scappare la ragazza insieme ai suoi soldati.
Le forze di Cesare si stabilirono in Tessaglia per pochi giorni. Una notte, nell’accampamento militare, Cesare convocò i suoi migliori soldati nonché i più devoti alla sua causa: Marco Antonio; Lucio Munazio Planco; Lucio Roscio Fabato; Publio Sestio Baculo; Gaio Crastino; Aulo Irzio e Gneo Domizio Calvino. Disse loro queste parole:
"Io non sono il vostro eroe. Non so come mi vedete, ma io non sono il vostro eroe; questo è certo. In realtà è da quando sono tornata dalla Gallia che ci penso … ho davvero fatto la cosa giusta? Non lo so. Saranno i posteri a giudicarmi. La stessa cosa la posso dire guardando questa folle guerra civile. Per questa ragione vi chiedo di non venerarmi, di non trattarmi come ‘colei che salverà Roma’ perché non sto facendo nulla di tutto questo. Io sto combattendo per cambiare il mondo, sto combattendo per distruggere il vecchio e per rimpiazzarlo con il nuovo. Questa guerra ci deve condurre verso il futuro non ci deve mantenere ancorati al passato." Si guardò le mani e per un attimo ebbe l’impressione di averle sporche di sangue. "Sono davvero disposta a tingere le acque del Mare Nostrum di rosso pur di rendere il mondo un posto migliore? La risposta è sì. Per il bene di un nuovo mondo io sono disposta a bruciare quello vecchio e a costruire sulle sue ceneri. Sono disposta a diventare un mostro per il bene delle generazioni future. Se questo è davvero il mio destino, così sia."


Giugno 48 a.C.

La pioggia batteva sulle diverse legioni Romane schierate su due fronti opposti a Farsalo. Cesare, davanti a tutti i suoi uomini, avanzò a cavallo, da sola, per incontrare al centro del campo di battaglia Gneo Pompeo Magno. Pompeo era un uomo che aveva il tipico aspetto del militare: era alto, muscoloso, non aveva la barba; i suoi capelli, che toccavano le spalle, erano dello stesso colore di una castagna, proprio come i suoi occhi. Aveva un volto con lineamenti duri e aveva lo sguardo di uno che aveva combattuto diverse guerre.
L’armatura di Pompeo era una tipica lorica musculata dorata su di una tunica nera, persino le calighe erano nere; indossava gambali e bracciali dorati; sopra l’armatura indossava un mantello corto, color carbone.
Era impossibile confondere Gneo Pompeo Magno per un comune legionario.
Quando l’uomo vide Cesare, sorrise, ma si capiva dai suoi occhi che era arrabbiato con lei. I due alleati, ora nemici mortali, erano finalmente faccia a faccia. Pompeo le disse:
"Siamo alla fine, Cesare. Sarebbe conveniente per te arrenderti."
"No. Non sono io quella che ha dato inizio a questa guerra civile, sei stato tu insieme a Catone. Ma non capisco perché. Eravamo amici, eri mio alleato. Perché hai fatto tutto questo?"
"Credi davvero di potermi illudere, Cesare? Forse il tuo bell’aspetto può ingannare gli sciocchi, ma io non sono uno sciocco e sapevo che con quella tua campagna in Gallia tu cercavi solamente di ottenere il potere assoluto. Altrimenti perché rischiare così tanto? Solo coloro che bramano potere compiono atti così folli. Non potevo rischiare di essere oscurato da una come te."
"Quindi hai scatenato questa guerra solo per difendere il tuo stupido orgoglio?"
Allora Cesare, dopo aver proferito quelle parole, realizzò di aver fatto la stessa cosa. Sorrise scuotendo lievemente la testa.
"Che cosa succede, donna?"
"Niente … è solo che … sembra tutto così assurdo. È buffo pensare che io te siamo così simili eppure così diversi. Sembra quasi uno scherzo orchestrato da quelle divinità."
"Ma di che parli?" domandò Pompeo, confuso.
"Ignora i vaneggiamenti della tua nemica, ormai non ha più importanza perché dopo questo giorno io pacificherò Roma."
"Sì, lo farai … giacché solo con la tua morte, Roma troverà finalmente la pace."
Pompeo diede le spalle a Cesare. La ragazza vide lo stemma dorato del lupo sul mantello dell’uomo, lo stemma della gens Pompeia.
I due comandanti tornarono alle rispettive legioni. Pompeo, una volta raggiunti i suoi uomini, urlò a Cesare:
"Il tuo destino ti ha condotto a me affinché io potessi eliminarti! Ed è quello che farò! Uomini, avanzate! Portatemi la testa di Gaio Giulio Cesare!"
Il numero dei legionari di Pompeo ammontava a circa quarantacinquemila mentre quelli di Cesare erano appena venticinquemila; la ragazza era conscia che affrontare Pompeo in quelle condizioni sarebbe stato arduo ma poi notò che la distanza fra le loro due legioni era molto vasta e i soldati nemici stavano correndo sul fango, allora capì cosa fare; Cesare ordinò ai suoi uomini di non muoversi e di prepararsi ad attaccare i nemici. Quando, finalmente, i soldati di Pompeo giunsero a poche centinaia di metri dai legionari di Cesare erano sfiancati e allora la ragazza ordinò ai suoi uomini di attaccare. La battaglia fu fulminea come poche e i nemici furono costretti ad affrontare gli esperti veterani che avevano combattuto in Gallia. L’esperienza dei legionari cesariani giocò a favore di Cesare.
I fortissimi legionari della ragazza riuscirono ad aprire un varco verso l’accampamento di Pompeo. I soldati nell’accampamento suonarono l’allarme ma Pompeo, con un cenno della mano, fermò i suoi uomini e disse a loro:
"Lasciatela entrare. Sarà interessante."
Loro guardarono il comandante con aria preoccupata.
"Ho già un piano in mente, non vi preoccupate … non fallirò."
Le legioni di Cesare, intanto, si fermarono a pochi passi dall’accampamento. La ragazza scese dal cavallo e, sguainando la spada, avanzò.
"Non seguitemi, sistemerò questa faccenda personalmente."

Cesare entrò nell’accampamento nemico e lì vide Pompeo, seduto su una sedia, con un calice argentato in mano. Bevve un sorso di vino e poi, dopo aver visto la ragazza, lanciò il calice verso di lei. Quando questo cadde nel terreno fangoso, la ragazza disse, con un tono sprezzante:
"Non mi dirai che è il tuo modo per offrirmi la pace, vero?"
"La pace?" Sorrise. "Non ci sarà nessuna pace, Cesare. Finché tu avrai respiro … non ci sarà nessuna pace." Pompeo si alzò. Vicino a lui era stata conficcata una specie di lancia la cui lama era lunga quasi quanto quella di una spada. Il legno dell’arma era decorato con disegni dorati e la lama usciva da una bocca di lupo dello stesso materiale. "Tu, una volta, avevi la grandiosa Crocea Mors. La Spada dalle Cento Facce. Ora però non hai più un’arma speciale con te … mentre io ho questa."
"Non ho bisogno di armi magiche per sconfiggerti."
"Qui ti sbagli, Cesare."
Venti legionari al servizio di Cesare, preoccupati per le condizioni di lei, erano entrati nell’accampamento e immediatamente circondarono Pompeo. Lui sorrise.
"Ora inizia il divertimento."
Un gigantesco lupo fatto di fuoco comparve alle spalle di Pompeo e, con un potente ululato, scatenò un’esplosione di fiamme che bruciò vivi i legionari. La ragazza, rimase senza parole, impietrita come una statua, per la prima volta provò davvero paura.
Quella bestia di fuoco si voltò verso Cesare ed iniziò a ringhiare.
"Sei sorpresa, Cesare? Pensavi di essere l’unica Romana ad essere speciale? Questo che tu vedi è un Lupus Maior ed è il guardiano della  mia famiglia. Ora, Cesare … fatti avanti!"
La ragazza, brandendo la spada, corse verso Pompeo, tuttavia quel lupo di fuoco si mise in mezzo e dalla bocca sputò un gettò di fiamme; Cesare lo schivò con difficoltà. La bestia provò ad azzannare la ragazza ma lei rotolò a terra per evitare le spaventosi fauci. Quando Cesare si rimise in piedi si trovò davanti Pompeo che era già pronto a decapitarla. Lei parò il colpo di lama, parò un altro fendente. Si allontanò. Schivò un’altra volta le fauci della bestia di fuoco.
"Interessante …" L’uomo fischiò e il lupo, dopo aver ululato, si trasformò in un informe cumulo di tizzoni fluttuanti che, a contatto con l’arma di lui, l’avvolsero nelle fiamme. "Ora vediamo come te la caverai!"
Pompeo iniziò a menare fendenti che si lasciavano dietro delle scie di fuoco. Cesare aveva difficoltà a parare tutti i colpi. Alla fine la spada della ragazza si spezzò.
"Hai perso, Cesare!"
Allora dei legionari entrarono nell’accampamento di Pompeo e attaccarono, urlando, l’uomo. Pompeo riuscì ad eliminarne dieci senza nessuna difficoltà e alla fine, quando l’arma di lui perse la sua vampa, riapparve la gigantesca bestia di fuoco che uccise altri trenta uomini.
Gaio Crastino, un giovane centurione fedelissimo a Cesare, si avvicinò alla ragazza e, preoccupato, domandò:
"Stai bene?"
"Io sì … ma dobbiamo fermare Pompeo prima che ci uccida tutti!"
"Bene …" Gaio Crastino si alzò in piedi e si mise davanti a Cesare.
"Cosa vuoi fare, stolto? Chiama gli altri legionari! Dì loro di raggiungerci!"
"Cesare …" si girò verso di lei "… in questo giorno, vivo o morto, farò in modo che tu sia grata a me."
"No!" esclamò Cesare vedendo il suo centurione lanciarsi contro Pompeo.
L’uomo era troppo impegnato ad uccidere i diversi legionari per accorgersi di Crastino, il quale lo attaccò e con la spada gli ferì il fianco.
"Figlio di una cagna!" esclamò Pompeo, furioso.
"Cesare vincerà!"
"Forse … ma tu non vivrai per vederla!" Pompeo, con la lama, trafisse Crastino e poi lo decapitò.
La ragazza urlò dalla sofferenza.
Pompeo pensò subito di uccidere anche lei ma quando si accorse che stavano arrivando altri legionari nemici decise di ritirarsi per evitare di rischiare la sua vita.
La bestia di fuoco scomparve e Pompeo se ne andò lasciando Cesare in mezzo ai cadaveri dei suoi uomini.
Con la fine della sanguinosa battaglia i pompeiani si ritirarono e la ragazza fece ritorno fra i suoi soldati, ancora traumatizzata da quella terribile battaglia contro il suo vecchio amico.
Non tutti i pompeiani accettarono di fuggire e molti, quindi, si arresero. Il primo a chiedere il perdono di Cesare fu Bruto, il figlio adottivo della ragazza; egli si mise ai suoi piedi e supplicò che fosse perdonato; un uomo tentò di attaccare il ragazzo ma Cesare lo fermò ed esclamò, furibonda:
"Nessuno toccherà Bruto! Lui è sotto la mia protezione."
I legionari condussero Bruto nella tenda di Cesare che si trovava nell’accampamento situato a Farsalo.
"Sono contenta di vedere che tu stia bene, figlio mio. Mi dispiace se ti hanno trattato male, ti prometto che non accadrà di nuovo."
Bruto non disse niente. Cesare notando che l’espressione del ragazzo era rammaricata domandò, preoccupata per la sua salute:
"Stai bene? Ti hanno fatto del male?"
"Cesare …"
"Sì? Dimmi, ti ascolto."
"Cesare … poni fine a questa guerra, ti prego. Stai ammazzando Romani, stai ammazzando la tua stessa gente in un conflitto inutile. Lasciati alle spalle Pompeo e poni fine alla guerra."
"Non si può fare, Bruto. Pompeo e tuo zio Catone hanno dato inizio a questa guerra, sono loro i veri traditori, io ho provato a cercare la pace ma loro hanno voluto tirare fuori il peggio di me. Ora impareranno che nessuno deve farmi arrabbiare."
"Quindi sono vere le voci?"
"Quali voci?"
"Che tu vuoi distruggere la  res publica per riportare la monarchia? È vero che tu vuoi diventare re? Vuoi attaccare i nostri valori e corromperci con una forma di governo oppressiva che toglierà la libertà a ogni Romano?"
"Quali ‘valori’, Bruto? Di quali valori stai parlando, Bruto? Quali valori possiede la Repubblica? Roma è in mano ad aristocratici incapaci di dirigere uno Stato, sono uomini pigri, attaccati alle loro ricchezze, che manipolano le elezioni, che impoveriscono la gente comune e che si strozzano nei loro agi e nel loro oro. Di quali valori stai parlando, Bruto? Della misoginia, della corruzione, dell’avidità, della decadenza, dell’incompetenza o magari della paura? Tu difendi persone che hanno paura di cambiare, tu difendi persone che temono il cambiamento solo perché si aggrappano all’amore per la “libertà” ma che senso ha avere tanta libertà se la usi per fare del male alle persone più deboli di te? Porterò la monarchia? No. Io riformerò la Repubblica. Io creerò un sistema perfetto, pulito, ordinato, capace di dare ad ogni figlio e figlia di Roma ciò che merita. E se per fare questo dovrò ottenere il potere assoluto così sia. Non ho paura di diventare un dittatore perpetuo per il bene di Roma."
"Quale bene? Non c’è bene nel ‘riformare la Repubblica’! Rischierai solo di farti più nemici!"
"Perché?"
"Troppe cose stai cambiando, Cesare. Non riuscirai mai nella tua impresa."
"Per me non esiste l’impossibile. Io cambierò il Mondo. Io cambierò Roma. Sarò lieta di avere il tuo appoggio, figlio mio, ma non rinuncerò mai al mio sogno."