Erano passate ormai due ore. Alessandro Serpi non aveva ancora proferito neanche una parola e Cesare non aveva idea di cosa fare per aiutarlo. Guardava il suo Master, che stava fermo, seduto per strada con lo sguardo fisso sul vuoto, e si sentiva impotente, incapace di fare qualcosa di concreto per lui.
Vergil era riuscito a fare la sua mossa. Alessandro, ora, non era più sicuro di poter sopravvivere e di poter proteggere Ina dalla Guerra del Sacro Graal. Il ragazzo sapeva che la sua Servant era una persona che amava parlare e, forse pensando che il dialogo gli avrebbe fatto da palliativo, aprì la bocca; la chiuse subito. Non aveva idea di che cosa dire. Per due ore non aveva fatto altro che accusarsi tacitamente di aver abbassato la guardia e di aver lasciato che Vergil lo separasse da Ina. Per due ore non aveva fatto altro che rimuginare sui suoi errori. Per due intere ore aveva raccolto rabbia, afflizione, paura e dolore, e desiderava farle esplodere... farle andare via, ma non ci riusciva. Non riusciva ad allontanarle. Più ci provava, più si rendeva conto di essere come imprigionato. Si sentiva come un uccello incapace di cantare. Un triste sorriso si disegnò sulle sue labbra, gli occhi si bagnarono e si rivolsero a Cesare.
«Pensavo...» La sua voce secca venne subito seguita dalla tosse.
«Non sei costretto a parlare» disse lei compassionevole.
Scosse la testa. «Tu cosa faresti...?» Tossì ancora. «Tu cosa faresti... al posto mio?»
«Beh...» Ci pensò su per qualche secondo. «Io credo che la forza di volontà di una persona possa essere messa alla prova solo dalle situazioni più opprimenti. Quando mi chiusi nella reggia di Alessandria assieme a Cleopatra e ai miei commilitoni, dovetti affrontare diverse difficoltà. La mia volontà venne messa a dura prova e riuscii a rispondere sia alle furbizie di Achilla che alle geniali strategie di Ganimede. Fu difficile? Sì, molto difficile.»
Alessandro non commentò.
«Ora che mi ci fai pensare, tutta la mia vita è stata così... Tuttavia non ci si può lamentare, giusto? La strada dei colossi non è mai in discesa!»
«Io non sono un colosso—»
«Lo sei, Commilitone. Lo sei sempre stato, ma non te ne sei mai reso conto. Pensaci. Pensa alla guerra precedente, pensa a quello che hai fatto e dimmi, guardandomi negli occhi, che chiunque, al tuo posto, avrebbe fatto le stesse cose. Io non credo. Nessuno ti ha obbligato a salvare il mondo, ma lo hai fatto comunque. Non riesci a comprendere? È proprio questo che ti rende un colosso!»
«Stai solo vaneggiando...»
«Tu credi? Pensa a Vergil. Pensa a quello che quell’uomo ha fatto solo per averti qui! In questo luogo! Avrebbe potuto ignorarti, giusto? Avrebbe potuto coinvolgere altre persone in questa guerra... e invece ha deciso di cercarti e di trascinarti in questo conflitto. Perché? La risposta è semplice, Commilitone: tu sei un colosso. Sei una persona importante, un Master che ha salvato il mondo e che ha reso possibile la sconfitta di Sheol! Come puoi essere cieco dinnanzi alle tue gesta?»
«Non è quello che ho chiesto!» esclamò con forza. «Non è quello che ho chiesto... Non l’ho mai desiderato...»
«Ebbene? Non puoi tornare indietro—»
«Credi che non lo sappia?» Si alzò da terra. «Credi che non lo sappia, Cesare? So perfettamente che non posso tornare indietro! Ma non ti rendi conto di quanto sia frustrante essere qui? Sono stanco! Hai ragione, ho combattuto tanto, ma posso sapere quando potrò smettere di combattere? Quand’è che potrò vivere la mia vita? Da quando è finita la guerra precedente, io non ho fatto altro che scappare da persone che volevano uccidermi! Hai idea di che cosa significhi? Hai idea di che cosa significhi vivere con la costante paura di morire per mano o di questo o di quell’altro assassino? Io non ce la faccio più!»
«Sì, so che cosa significa. La mia vita politica è iniziata così, Commilitone. Avevo appena vent’anni quando il dittatore Lucio Cornelio Silla decise che io dovevo sparire. Passai quasi un anno intero a nascondermi, a corrompere le persone che volevano uccidermi e a cercare la protezione di amici e amanti. Vuoi sapere la cosa buffa? Quel matto mi voleva morta solo perché io ero la nipote del suo defunto rivale. Quindi, Commilitone, so quello che hai provato e mi dispiace... ma questo è il momento di reagire.»
«E cosa dovrei fare...?»
«Combatti. Se il mondo ti spinge, tu devi spingere con più forza. Questo è il momento, Commilitone, di dimostrare a Vergil che tu non sei un debole e che vincerai questa sua ridicola guerra. Questo è il momento di brandire le armi e farsi valere, Alessandro! Smettila di piangerti addosso! Conserva quelle lacrime per quando avrai vinto! Tu sei un colosso ed io lo so! Ti ho visto affrontare di peggio, Commilitone... Ti ho visto affrontare di peggio e ti ho visto uscire vincitore. Non sminuire quei successi, trattali con il giusto rispetto! Alza la testa e reagisci!»
Alessandro non disse una parola. Si voltò verso l’arena che lo attendeva, poco più in avanti, e avanzò a testa bassa. Era cambiato. Le parole di Cesare gli avevano ricordato che lui non era sopravvissuto al conflitto di Londra per vivere una vita nella paura e nell’infelicità. Lui desiderava la libertà, bramava di poter vivere una vita pacifica e felice. Suo padre, sua madre, il Gran Maestro, Yukiko e ora Vergil... Tutti loro avevano provato o stavano ancora tentando di inchiodarlo ad un’esistenza tragica e questo, lui, non lo tollerava più. Era stanco di subire, di essere trattato come un debole e di essere spinto a destra e a sinistra. Era stanco di essere costretto a combattere delle guerre ed era soprattutto stanco di vedere morire degli innocenti.
Alessandro Serpi avanzò verso l’arena... verso il suo destino.
Lontano da Adocentyn, in Italia, il quartier generale della Congrega era in subbuglio. Giovani discepoli e membri anziani erano venuti a conoscenza di un terribile fatto. Il Gran Maestro, che era ancora all’oscuro di tutto, non aveva idea che quei disordini fossero stati causati da un’informazione trapelata da un insubordinato.
Il Gran Maestro aveva ordinato ad uno dei suoi di scoprire che cosa stesse succedendo. Dopo qualche minuto, la porta del suo ufficio si spalancò con forza.
«Gran Maestro!» urlò un uomo.
Giovanni Monteverdi X si voltò e vide corrergli appresso questo discepolo con la fronte che grondava di sudore.
«Che succede?» domandò inarcando le sopracciglia.
«Io... non lo so... non ne ho idea... è successo qualcosa...» disse balbettando. «Ho sentito delle voci... Delle voci su...»
«Ma di che parli?»
«La prigioniera è—»
Giovanni spinse il discepolo e si diresse immediatamente verso la prigione dove era tenuta Yukiko Kumahira. Il cuore palpitava come un pazzo. La testa venne offuscata da pensieri terribili e l’uomo accelerò il passo. Si fece strada fra i diversi membri della Congrega e tentò di calmarne alcuni con parole brusche, alcune volte anche minacce. Continuò a camminare, frettoloso, e, lungo la strada, incontrò Marco Lombardo, il quale aveva la sua medesima meta e anche due occhi intimoriti.
«Chi ha fatto trapelare l’informazione?» domandò Giovanni innervosito.
«Non ne ho idea, Gran Maestro—»
«Perché cazzo non sono stato il primo a saperlo?!» urlò furibondo. «Cosa diavolo sta succedendo?»
«Io non ne ho idea. Sono stato chiamato da Ponti, è stato lui a dirmi di raggiungerlo.»
Giovanni e Marco scesero nella prigione e incontrarono Davide Ponti. L’uomo se ne stava lontano dalla porta di ferro che lo separava dalla prigioniera; lo sguardo di lui era terrorizzato come quello di un infante e neanche la presenza dei suoi due colleghi poté calmarlo.
«Siete arrivati...» disse con una debole voce. «Ci sono dei problemi, qualcosa non va con la prigioniera...»
«Spostati» fece Giovanni mettendosi davanti alla porta della gabbia. «Fammi dare un’occhiata.»
Giovanni Monteverdi aprì la porta di ferro e, non appena varcò la soglia, impallidì nell’apprendere che Yukiko Kumahira era in piedi. Lo sguardo della ragazza era assente, aveva ancora quel simbolo sulla fronte, quindi significava che, di fatto, era ancora intrappolata in quell’illusione che era stata preparata dalla Congrega per torturarla.
«Perché è in piedi?» domandò Marco scioccato. «Dovrebbe essere in uno stato di coma...»
«Io non ne ho idea...» rispose Davide con un tono tremolante. «Ero qui per i soliti controlli e l’ho vista in piedi. Non so come abbia fatto, non so come sia possibile... io giuro che non ho fatto niente.»
«Qualcun altro ha accesso alla gabbia?»
«No, solo io.»
«Allora che è successo? Gran Maestro, cosa ne pensa? Forse è necessario—»
Giovanni interruppe entrambi. L’uomo si avvicinò lentamente a Yukiko e la osservò con la stessa attenzione di un medico; voleva essere sicuro che lei fosse ancora sotto l’effetto della magia. Yukiko non si era mossa di un solo passo, dondolava un po’, ma non camminava. Aveva la stessa espressione di un paziente lobotomizzato.
Eppure era in piedi.
Giovanni Monteverdi si allontanò di poco e si guardò attorno alla ricerca di possibili indizi. Fu allora che notò la presenza di graffi sulla parete; erano appena visibili, ma c’erano. Sembrava l’opera di una bestia.
«Cos’è questa roba?» indagò agitato. «Voi ne avete idea? Che cosa avete fatto? Che cosa hai fatto, Ponti?»
«Io? Niente! Lo giuro!» esclamò terrorizzato.
«Che cos’è questa roba, allora? Che cosa sono questi graffi sulla parete? Chi è stato?»
«Non lo so! Lo giuro! Io non ho visto niente—!»
«Chi ha fatto quei graffi sulla parete?» La sua voce si alzò. «Chi cazzo è entrato qui dentro?»
«Ness—»
«Stronzate!» urlò. «Qualcuno è entrato! Ne sono sicuro! Chi ha graffiato la parete? Che cosa è successo? Che cosa hai fatto?» Giovanni stava diventando sempre più aggressivo. «Ti rendi conto che questa ragazza è la persona più pericolosa del pianeta?! Se lei si sveglia, noi siamo morti!»
In quel momento intervenne Marco Lombardo con una debole voce: «Gran Maestro... dietro di voi...»
Giovanni vide la paura più profonda tingere lo sguardo del suo collega.
L’uomo si girò lentamente e vide in alto, in un angolo buio della stanza, queste lunghe zampe di nuda pelle che, con affilati artigli, rimanevano aggrappate al muro. Erano sei zampe di una creatura che non emetteva neanche il più sottile suono. Era come se non fosse neanche reale.
Gli uomini si allontanarono lentamente e, spaventati, cercarono di capire che cosa fosse. Giovanni Monteverdi usò una magia per illuminare quell’angolo della parete e allora venne smascherato quel volto spoglio di occhi, naso, orecchie e bocca. La bestia aveva una lunga testa con una sorta di proboscide trasparente che si muoveva come un serpente appeso ad un gancio. Il corpo esile di questa creatura era attraversato da venature violacee. Il mostro, avvertendo la presenza della luce, si mosse rapidamente per il soffitto come un ragno; i tre uomini si spostarono immediatamente per stare lontani da quell’orrenda pallida creatura.
«Che cazzo è quella cosa...?» domandò Giovanni Monteverdi scioccato. «Non è un demone...»
«No, signore, non emana energia magica...»
«Scommetto che è quella cagna ad aver portato qui quella creatura!»
«Cosa vuole fare, Gran Maestro?»
«Non è ovvio? Pongo fine al problema.»
Giovanni Monteverdi si avvicinò a Yukiko Kumahira e si preparò ad usare una magia per ucciderla.
La ragazza sbatté le ciglia.
«Cosa...? L’avete vista anche voi?» domandò lui scosso.
Gli occhi della ragazza iniziarono a muoversi follemente.
«Al diavolo! Non rischierò!»
Non appena Giovanni Monteverdi canalizzò il mana per lanciare l’incantesimo, qualcosa colpì il suo braccio.
Era la proboscide di quel mostro.
Come un ago gigantesco e organico, quella protuberanza trafisse il braccio dell’uomo e iniziò a succhiare il sangue. Giovanni perse la sensibilità del braccio nel giro di pochi secondi e, in esigui attimi, l’arto dell’uomo assunse un aspetto cadaverico.
«Aiutatemi!» urlò lui.
Non appena si girò si rese conto che sia Marco Lombardo che Davide Ponti avevano gli occhi cuciti e i loro corpi si stavano polverizzando poco alla volta.
«No! No!» urlò Giovanni assistendo alla morte dei due colleghi. «NO!» L’uomo si voltò verso quell’orribile mostro ed esclamò, schioccando le dita: «Acies Gladii!»
Tre spade magiche trafissero il corpo della bestia, la quale scappò nell’ombra. Giovanni riuscì a fuggire da quella gabbia. Chiuse la porta e si allontanò gridando aiuto. Corse lungo il corridoio della prigione, sicuro di essere inseguito da quell’immonda creatura, e continuò ad urlare affinché gli venissero mandati dei rinforzi.
Nessuno rispose.
Nessuno giunse per aiutare il Gran Maestro.
Nessuno.
«Aiutatemi, vi prego! Qualcuno mi aiuti! Yukiko Kumahira sta per—!»
Allora l’uomo si accorse che il braccio destro, quello che era stato colpito dalla proboscide del mostro, era tornato come prima. Non aveva più un aspetto secco, prosciugato; era sano e della medesima carnagione di sempre. Non poteva essere possibile. Era sicuro di aver perso quell’arto, era sicuro di essere stato colpito e non aveva usato alcuna magia per guarirsi. Scrutò il suo braccio con occhio clinico alla ricerca del punto dove la proboscide lo aveva trafitto, ma non trovò neanche una minuscola ferita.
«Tutto bene, Gran Maestro?» domandò uno dei discepoli.
L’uomo alzò la testa e capì di essere fuori dalla prigione, ma non si ricordava di aver oltrepassato l’uscio. Si guardò attorno e realizzò che i disordini di prima si erano dissipati, era come se tutti avessero deciso, all’unisono, di smettere non solo di agitarsi, ma anche di fare il minimo rumore; era surreale.
«Tutto bene—?»
«Non mi toccare!» L’uomo spinse il discepolo e, senza pensarci tornò nella prigione. «Che cosa sta succedendo? Che cazzo sta succedendo?! Non ha senso! Non ha senso, merda! Non ha un fottuto senso!» Poi si fermò. Ripensò a quello che era accaduto e iniziò a sudare freddo. «A meno che...»
Si avvicinò alla cella di Yukiko e vide, vicino alla porta di ferro, Davide Ponti e Marco Lombardo che stavano parlando. Entrambi erano in ottima salute.
«Ah, Gran Maestro, che piacere vederla!» esclamò Marco, felice. «Ha bisogno di qualcosa?»
«Voi... Io... Yukiko!»
«Che succede...?»
«La prigioniera! Fammi aprire la porta!»
Quando i tre uomini entrarono nella cella, Yukiko non c’era. Del mostro non si vedeva neanche una traccia. I graffi sulla parete erano scomparsi.
Allora Giovanni Monteverdi capì e si trovò da solo, nella gabbia, con Yukiko Kumahira, che era sdraiata per terra, in quello stato di coma in cui sarebbe dovuta stare sin dall’inizio. La ragazza si rialzò lentamente. Lui cercò di usare la magia per ucciderla, ma non riusciva a canalizzare il mana. Realizzando la sua impotenza, l’uomo cercò di uscire... ma la porta era bloccata. Disperato, Giovanni colpì Yukiko con un calci e pugni, ma le braccia erano affaticate e le gambe erano pesanti. L’uomo si allontanò e continuò a ripetere:
«Stai giù stai giù stai giù stai giù stai giù...»
Pianse. La fanciulla si liberò facilmente dalla camicia di forza.
«Questo non è reale» disse lui a bassa voce.
Sul volto della ragazza apparve un sorriso maligno. «Finalmente hai capito.» Il simbolo sulla sua fronte scomparve. «Ci hai messo più del previsto, ma hai capito.»
«Quando...? Come...?»
«Nel momento in cui siete entrati nella stanza tutti e tre. Quello è stato il momento in cui ho usato la vostra stessa magia contro di voi. Per quanto riguarda il ‘come’, beh... diciamo pure che i vostri trucchi sono come giochi da bambini d’asilo per me. Non è stato difficile comprendere il funzionamento della vostra magia, mi è bastato giocare al vostro gioco senza mai perdere di vista la mia coscienza. Mi ci è voluto più tempo del previsto, ma alla fine ne è valsa la pena.»
«Non riuscirai mai a scappare dalla Congrega... i miei uomini ti fermeranno...»
«Intendi dire quelli che sono morti?»
Lui spalancò gli occhi dal terrore.
«Mio carissimo Gran Maestro, davvero pensavi che quei piccoli magi sarebbero stati in grado di fermare me? Le pecore non possono sbranare il lupo. Te l’ho già detto...»
«No, non abbiamo mai parlato io e—» Vide il sorriso sul volto di lei. «Da quanto tempo sono qui...?»
«Finalmente la domanda giusta. Sei lento, ma alla fine ce la fai. Vuoi un numero? Credo... quattro giorni. Io sono scappata quattro giorni fa, carissimo Gran Maestro. Questa è la seconda ed ultima volta che ti faccio visita—»
«Dov’è il mio corpo...? Dove sono tutti? Perché nessuno mi salva...?» Allora capì. I suoi occhi si bagnarono dallo sgomento e dalla disperazione. «No... Non dirmelo... Non dirmelo, ti prego...»
«Esatto, mio caro Gran Maestro, nessuno ti può salvare... perché sei solo. Ti ho sepolto vivo sotto le macerie della tua stessa Congrega assieme ai cadaveri dei tuoi discepoli e dei tuoi ‘amici’. Questa è la tua nuova vita: un eterno incubo. Nessuno ti salverà, nessuno ti verrà a cercare, nessuno si preoccuperà per te.»
«NO!» urlò in lacrime. «Voglio uscire! Fammi uscire! FAMMI USCIRE!»
«Suvvia, non fare così, è stata colpa tua. Non avresti dovuto giocare a dadi con Dio. Ci si vede, ultimo Gran Maestro: Giovanni Monteverdi X.»
«No! Ferma! Non voglio...!»
Yukiko scomparve.
Giovanni si ritrovò nel suo ufficio, era come se si fosse appena svegliato da un terribile sogno. Si guardò attorno, agitato, e toccò le pareti della stanza, la scrivania e persino i vetri. Aveva paura, voleva essere sicuro di essere nella realtà.
«Ho fatto un sogno...? Era solo... un sogno?» Si guardò allo specchio. «Questo è reale? Tutto questo è vero o è solo nella mia testa...?» Il suo corpo era bagnato di sudore. «Dimmi che è reale, ti prego... Dimmi che era solo un sogno...» I suoi occhi si bagnarono. «Ti prego, Dio...»
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Niente era cambiato.
Tirò un sospiro di sollievo e, sorridendo, disse a sé stesso:
«Era solo un sogno. Un terribile sogno. Mi sono immaginato ogni cosa... Ti ringrazio, Dio. Ti ringrazio per aver avuto pietà di me.»
L’uomo si sedette davanti alla scrivania e si mise ad ordinare qualche scartoffia, ripensando a quello che aveva sognato. Il terrore vagava ancora nel suo cuore, ma si stava assopendo un po’ per volta. Sentì il bisogno di camminare, aveva bisogno di respirare dell’aria fresca.
Si alzò dalla scrivania e varcò l’uscio.
«Gran Maestro!» urlò un uomo.
Il Gran Maestro Giovanni Monteverdi X si voltò e vide corrergli appresso questo discepolo con la fronte che grondava di sudore.
«Che succede?» domandò inarcando le sopracciglia.
«Io... non lo so... non ne ho idea... è successo qualcosa...» disse balbettando.
«Ma di che parli?»
«La prigioniera è—»
Yukiko se ne stava in piedi, con le mani dietro la schiena, ad ammirare le macerie di quello che, solo fino a quattro giorni fa, era il quartier generale della Congrega. La ragazza si girò e abbandonò il Gran Maestro nella sua tomba. Una tomba fatta di mattoni, cadaveri e incubi.
Il demone dall’aspetto femminile aveva una meta chiara, un obbiettivo che le stuzzicava quel palato affamato di sangue. Avanzò silenziosamente verso un destino che la attendeva sulla sommità di Adocentyn.
Vergil era riuscito a fare la sua mossa. Alessandro, ora, non era più sicuro di poter sopravvivere e di poter proteggere Ina dalla Guerra del Sacro Graal. Il ragazzo sapeva che la sua Servant era una persona che amava parlare e, forse pensando che il dialogo gli avrebbe fatto da palliativo, aprì la bocca; la chiuse subito. Non aveva idea di che cosa dire. Per due ore non aveva fatto altro che accusarsi tacitamente di aver abbassato la guardia e di aver lasciato che Vergil lo separasse da Ina. Per due ore non aveva fatto altro che rimuginare sui suoi errori. Per due intere ore aveva raccolto rabbia, afflizione, paura e dolore, e desiderava farle esplodere... farle andare via, ma non ci riusciva. Non riusciva ad allontanarle. Più ci provava, più si rendeva conto di essere come imprigionato. Si sentiva come un uccello incapace di cantare. Un triste sorriso si disegnò sulle sue labbra, gli occhi si bagnarono e si rivolsero a Cesare.
«Pensavo...» La sua voce secca venne subito seguita dalla tosse.
«Non sei costretto a parlare» disse lei compassionevole.
Scosse la testa. «Tu cosa faresti...?» Tossì ancora. «Tu cosa faresti... al posto mio?»
«Beh...» Ci pensò su per qualche secondo. «Io credo che la forza di volontà di una persona possa essere messa alla prova solo dalle situazioni più opprimenti. Quando mi chiusi nella reggia di Alessandria assieme a Cleopatra e ai miei commilitoni, dovetti affrontare diverse difficoltà. La mia volontà venne messa a dura prova e riuscii a rispondere sia alle furbizie di Achilla che alle geniali strategie di Ganimede. Fu difficile? Sì, molto difficile.»
Alessandro non commentò.
«Ora che mi ci fai pensare, tutta la mia vita è stata così... Tuttavia non ci si può lamentare, giusto? La strada dei colossi non è mai in discesa!»
«Io non sono un colosso—»
«Lo sei, Commilitone. Lo sei sempre stato, ma non te ne sei mai reso conto. Pensaci. Pensa alla guerra precedente, pensa a quello che hai fatto e dimmi, guardandomi negli occhi, che chiunque, al tuo posto, avrebbe fatto le stesse cose. Io non credo. Nessuno ti ha obbligato a salvare il mondo, ma lo hai fatto comunque. Non riesci a comprendere? È proprio questo che ti rende un colosso!»
«Stai solo vaneggiando...»
«Tu credi? Pensa a Vergil. Pensa a quello che quell’uomo ha fatto solo per averti qui! In questo luogo! Avrebbe potuto ignorarti, giusto? Avrebbe potuto coinvolgere altre persone in questa guerra... e invece ha deciso di cercarti e di trascinarti in questo conflitto. Perché? La risposta è semplice, Commilitone: tu sei un colosso. Sei una persona importante, un Master che ha salvato il mondo e che ha reso possibile la sconfitta di Sheol! Come puoi essere cieco dinnanzi alle tue gesta?»
«Non è quello che ho chiesto!» esclamò con forza. «Non è quello che ho chiesto... Non l’ho mai desiderato...»
«Ebbene? Non puoi tornare indietro—»
«Credi che non lo sappia?» Si alzò da terra. «Credi che non lo sappia, Cesare? So perfettamente che non posso tornare indietro! Ma non ti rendi conto di quanto sia frustrante essere qui? Sono stanco! Hai ragione, ho combattuto tanto, ma posso sapere quando potrò smettere di combattere? Quand’è che potrò vivere la mia vita? Da quando è finita la guerra precedente, io non ho fatto altro che scappare da persone che volevano uccidermi! Hai idea di che cosa significhi? Hai idea di che cosa significhi vivere con la costante paura di morire per mano o di questo o di quell’altro assassino? Io non ce la faccio più!»
«Sì, so che cosa significa. La mia vita politica è iniziata così, Commilitone. Avevo appena vent’anni quando il dittatore Lucio Cornelio Silla decise che io dovevo sparire. Passai quasi un anno intero a nascondermi, a corrompere le persone che volevano uccidermi e a cercare la protezione di amici e amanti. Vuoi sapere la cosa buffa? Quel matto mi voleva morta solo perché io ero la nipote del suo defunto rivale. Quindi, Commilitone, so quello che hai provato e mi dispiace... ma questo è il momento di reagire.»
«E cosa dovrei fare...?»
«Combatti. Se il mondo ti spinge, tu devi spingere con più forza. Questo è il momento, Commilitone, di dimostrare a Vergil che tu non sei un debole e che vincerai questa sua ridicola guerra. Questo è il momento di brandire le armi e farsi valere, Alessandro! Smettila di piangerti addosso! Conserva quelle lacrime per quando avrai vinto! Tu sei un colosso ed io lo so! Ti ho visto affrontare di peggio, Commilitone... Ti ho visto affrontare di peggio e ti ho visto uscire vincitore. Non sminuire quei successi, trattali con il giusto rispetto! Alza la testa e reagisci!»
Alessandro non disse una parola. Si voltò verso l’arena che lo attendeva, poco più in avanti, e avanzò a testa bassa. Era cambiato. Le parole di Cesare gli avevano ricordato che lui non era sopravvissuto al conflitto di Londra per vivere una vita nella paura e nell’infelicità. Lui desiderava la libertà, bramava di poter vivere una vita pacifica e felice. Suo padre, sua madre, il Gran Maestro, Yukiko e ora Vergil... Tutti loro avevano provato o stavano ancora tentando di inchiodarlo ad un’esistenza tragica e questo, lui, non lo tollerava più. Era stanco di subire, di essere trattato come un debole e di essere spinto a destra e a sinistra. Era stanco di essere costretto a combattere delle guerre ed era soprattutto stanco di vedere morire degli innocenti.
Alessandro Serpi avanzò verso l’arena... verso il suo destino.
Lontano da Adocentyn, in Italia, il quartier generale della Congrega era in subbuglio. Giovani discepoli e membri anziani erano venuti a conoscenza di un terribile fatto. Il Gran Maestro, che era ancora all’oscuro di tutto, non aveva idea che quei disordini fossero stati causati da un’informazione trapelata da un insubordinato.
Il Gran Maestro aveva ordinato ad uno dei suoi di scoprire che cosa stesse succedendo. Dopo qualche minuto, la porta del suo ufficio si spalancò con forza.
«Gran Maestro!» urlò un uomo.
Giovanni Monteverdi X si voltò e vide corrergli appresso questo discepolo con la fronte che grondava di sudore.
«Che succede?» domandò inarcando le sopracciglia.
«Io... non lo so... non ne ho idea... è successo qualcosa...» disse balbettando. «Ho sentito delle voci... Delle voci su...»
«Ma di che parli?»
«La prigioniera è—»
Giovanni spinse il discepolo e si diresse immediatamente verso la prigione dove era tenuta Yukiko Kumahira. Il cuore palpitava come un pazzo. La testa venne offuscata da pensieri terribili e l’uomo accelerò il passo. Si fece strada fra i diversi membri della Congrega e tentò di calmarne alcuni con parole brusche, alcune volte anche minacce. Continuò a camminare, frettoloso, e, lungo la strada, incontrò Marco Lombardo, il quale aveva la sua medesima meta e anche due occhi intimoriti.
«Chi ha fatto trapelare l’informazione?» domandò Giovanni innervosito.
«Non ne ho idea, Gran Maestro—»
«Perché cazzo non sono stato il primo a saperlo?!» urlò furibondo. «Cosa diavolo sta succedendo?»
«Io non ne ho idea. Sono stato chiamato da Ponti, è stato lui a dirmi di raggiungerlo.»
Giovanni e Marco scesero nella prigione e incontrarono Davide Ponti. L’uomo se ne stava lontano dalla porta di ferro che lo separava dalla prigioniera; lo sguardo di lui era terrorizzato come quello di un infante e neanche la presenza dei suoi due colleghi poté calmarlo.
«Siete arrivati...» disse con una debole voce. «Ci sono dei problemi, qualcosa non va con la prigioniera...»
«Spostati» fece Giovanni mettendosi davanti alla porta della gabbia. «Fammi dare un’occhiata.»
Giovanni Monteverdi aprì la porta di ferro e, non appena varcò la soglia, impallidì nell’apprendere che Yukiko Kumahira era in piedi. Lo sguardo della ragazza era assente, aveva ancora quel simbolo sulla fronte, quindi significava che, di fatto, era ancora intrappolata in quell’illusione che era stata preparata dalla Congrega per torturarla.
«Perché è in piedi?» domandò Marco scioccato. «Dovrebbe essere in uno stato di coma...»
«Io non ne ho idea...» rispose Davide con un tono tremolante. «Ero qui per i soliti controlli e l’ho vista in piedi. Non so come abbia fatto, non so come sia possibile... io giuro che non ho fatto niente.»
«Qualcun altro ha accesso alla gabbia?»
«No, solo io.»
«Allora che è successo? Gran Maestro, cosa ne pensa? Forse è necessario—»
Giovanni interruppe entrambi. L’uomo si avvicinò lentamente a Yukiko e la osservò con la stessa attenzione di un medico; voleva essere sicuro che lei fosse ancora sotto l’effetto della magia. Yukiko non si era mossa di un solo passo, dondolava un po’, ma non camminava. Aveva la stessa espressione di un paziente lobotomizzato.
Eppure era in piedi.
Giovanni Monteverdi si allontanò di poco e si guardò attorno alla ricerca di possibili indizi. Fu allora che notò la presenza di graffi sulla parete; erano appena visibili, ma c’erano. Sembrava l’opera di una bestia.
«Cos’è questa roba?» indagò agitato. «Voi ne avete idea? Che cosa avete fatto? Che cosa hai fatto, Ponti?»
«Io? Niente! Lo giuro!» esclamò terrorizzato.
«Che cos’è questa roba, allora? Che cosa sono questi graffi sulla parete? Chi è stato?»
«Non lo so! Lo giuro! Io non ho visto niente—!»
«Chi ha fatto quei graffi sulla parete?» La sua voce si alzò. «Chi cazzo è entrato qui dentro?»
«Ness—»
«Stronzate!» urlò. «Qualcuno è entrato! Ne sono sicuro! Chi ha graffiato la parete? Che cosa è successo? Che cosa hai fatto?» Giovanni stava diventando sempre più aggressivo. «Ti rendi conto che questa ragazza è la persona più pericolosa del pianeta?! Se lei si sveglia, noi siamo morti!»
In quel momento intervenne Marco Lombardo con una debole voce: «Gran Maestro... dietro di voi...»
Giovanni vide la paura più profonda tingere lo sguardo del suo collega.
L’uomo si girò lentamente e vide in alto, in un angolo buio della stanza, queste lunghe zampe di nuda pelle che, con affilati artigli, rimanevano aggrappate al muro. Erano sei zampe di una creatura che non emetteva neanche il più sottile suono. Era come se non fosse neanche reale.
Gli uomini si allontanarono lentamente e, spaventati, cercarono di capire che cosa fosse. Giovanni Monteverdi usò una magia per illuminare quell’angolo della parete e allora venne smascherato quel volto spoglio di occhi, naso, orecchie e bocca. La bestia aveva una lunga testa con una sorta di proboscide trasparente che si muoveva come un serpente appeso ad un gancio. Il corpo esile di questa creatura era attraversato da venature violacee. Il mostro, avvertendo la presenza della luce, si mosse rapidamente per il soffitto come un ragno; i tre uomini si spostarono immediatamente per stare lontani da quell’orrenda pallida creatura.
«Che cazzo è quella cosa...?» domandò Giovanni Monteverdi scioccato. «Non è un demone...»
«No, signore, non emana energia magica...»
«Scommetto che è quella cagna ad aver portato qui quella creatura!»
«Cosa vuole fare, Gran Maestro?»
«Non è ovvio? Pongo fine al problema.»
Giovanni Monteverdi si avvicinò a Yukiko Kumahira e si preparò ad usare una magia per ucciderla.
La ragazza sbatté le ciglia.
«Cosa...? L’avete vista anche voi?» domandò lui scosso.
Gli occhi della ragazza iniziarono a muoversi follemente.
«Al diavolo! Non rischierò!»
Non appena Giovanni Monteverdi canalizzò il mana per lanciare l’incantesimo, qualcosa colpì il suo braccio.
Era la proboscide di quel mostro.
Come un ago gigantesco e organico, quella protuberanza trafisse il braccio dell’uomo e iniziò a succhiare il sangue. Giovanni perse la sensibilità del braccio nel giro di pochi secondi e, in esigui attimi, l’arto dell’uomo assunse un aspetto cadaverico.
«Aiutatemi!» urlò lui.
Non appena si girò si rese conto che sia Marco Lombardo che Davide Ponti avevano gli occhi cuciti e i loro corpi si stavano polverizzando poco alla volta.
«No! No!» urlò Giovanni assistendo alla morte dei due colleghi. «NO!» L’uomo si voltò verso quell’orribile mostro ed esclamò, schioccando le dita: «Acies Gladii!»
Tre spade magiche trafissero il corpo della bestia, la quale scappò nell’ombra. Giovanni riuscì a fuggire da quella gabbia. Chiuse la porta e si allontanò gridando aiuto. Corse lungo il corridoio della prigione, sicuro di essere inseguito da quell’immonda creatura, e continuò ad urlare affinché gli venissero mandati dei rinforzi.
Nessuno rispose.
Nessuno giunse per aiutare il Gran Maestro.
Nessuno.
«Aiutatemi, vi prego! Qualcuno mi aiuti! Yukiko Kumahira sta per—!»
Allora l’uomo si accorse che il braccio destro, quello che era stato colpito dalla proboscide del mostro, era tornato come prima. Non aveva più un aspetto secco, prosciugato; era sano e della medesima carnagione di sempre. Non poteva essere possibile. Era sicuro di aver perso quell’arto, era sicuro di essere stato colpito e non aveva usato alcuna magia per guarirsi. Scrutò il suo braccio con occhio clinico alla ricerca del punto dove la proboscide lo aveva trafitto, ma non trovò neanche una minuscola ferita.
«Tutto bene, Gran Maestro?» domandò uno dei discepoli.
L’uomo alzò la testa e capì di essere fuori dalla prigione, ma non si ricordava di aver oltrepassato l’uscio. Si guardò attorno e realizzò che i disordini di prima si erano dissipati, era come se tutti avessero deciso, all’unisono, di smettere non solo di agitarsi, ma anche di fare il minimo rumore; era surreale.
«Tutto bene—?»
«Non mi toccare!» L’uomo spinse il discepolo e, senza pensarci tornò nella prigione. «Che cosa sta succedendo? Che cazzo sta succedendo?! Non ha senso! Non ha senso, merda! Non ha un fottuto senso!» Poi si fermò. Ripensò a quello che era accaduto e iniziò a sudare freddo. «A meno che...»
Si avvicinò alla cella di Yukiko e vide, vicino alla porta di ferro, Davide Ponti e Marco Lombardo che stavano parlando. Entrambi erano in ottima salute.
«Ah, Gran Maestro, che piacere vederla!» esclamò Marco, felice. «Ha bisogno di qualcosa?»
«Voi... Io... Yukiko!»
«Che succede...?»
«La prigioniera! Fammi aprire la porta!»
Quando i tre uomini entrarono nella cella, Yukiko non c’era. Del mostro non si vedeva neanche una traccia. I graffi sulla parete erano scomparsi.
Allora Giovanni Monteverdi capì e si trovò da solo, nella gabbia, con Yukiko Kumahira, che era sdraiata per terra, in quello stato di coma in cui sarebbe dovuta stare sin dall’inizio. La ragazza si rialzò lentamente. Lui cercò di usare la magia per ucciderla, ma non riusciva a canalizzare il mana. Realizzando la sua impotenza, l’uomo cercò di uscire... ma la porta era bloccata. Disperato, Giovanni colpì Yukiko con un calci e pugni, ma le braccia erano affaticate e le gambe erano pesanti. L’uomo si allontanò e continuò a ripetere:
«Stai giù stai giù stai giù stai giù stai giù...»
Pianse. La fanciulla si liberò facilmente dalla camicia di forza.
«Questo non è reale» disse lui a bassa voce.
Sul volto della ragazza apparve un sorriso maligno. «Finalmente hai capito.» Il simbolo sulla sua fronte scomparve. «Ci hai messo più del previsto, ma hai capito.»
«Quando...? Come...?»
«Nel momento in cui siete entrati nella stanza tutti e tre. Quello è stato il momento in cui ho usato la vostra stessa magia contro di voi. Per quanto riguarda il ‘come’, beh... diciamo pure che i vostri trucchi sono come giochi da bambini d’asilo per me. Non è stato difficile comprendere il funzionamento della vostra magia, mi è bastato giocare al vostro gioco senza mai perdere di vista la mia coscienza. Mi ci è voluto più tempo del previsto, ma alla fine ne è valsa la pena.»
«Non riuscirai mai a scappare dalla Congrega... i miei uomini ti fermeranno...»
«Intendi dire quelli che sono morti?»
Lui spalancò gli occhi dal terrore.
«Mio carissimo Gran Maestro, davvero pensavi che quei piccoli magi sarebbero stati in grado di fermare me? Le pecore non possono sbranare il lupo. Te l’ho già detto...»
«No, non abbiamo mai parlato io e—» Vide il sorriso sul volto di lei. «Da quanto tempo sono qui...?»
«Finalmente la domanda giusta. Sei lento, ma alla fine ce la fai. Vuoi un numero? Credo... quattro giorni. Io sono scappata quattro giorni fa, carissimo Gran Maestro. Questa è la seconda ed ultima volta che ti faccio visita—»
«Dov’è il mio corpo...? Dove sono tutti? Perché nessuno mi salva...?» Allora capì. I suoi occhi si bagnarono dallo sgomento e dalla disperazione. «No... Non dirmelo... Non dirmelo, ti prego...»
«Esatto, mio caro Gran Maestro, nessuno ti può salvare... perché sei solo. Ti ho sepolto vivo sotto le macerie della tua stessa Congrega assieme ai cadaveri dei tuoi discepoli e dei tuoi ‘amici’. Questa è la tua nuova vita: un eterno incubo. Nessuno ti salverà, nessuno ti verrà a cercare, nessuno si preoccuperà per te.»
«NO!» urlò in lacrime. «Voglio uscire! Fammi uscire! FAMMI USCIRE!»
«Suvvia, non fare così, è stata colpa tua. Non avresti dovuto giocare a dadi con Dio. Ci si vede, ultimo Gran Maestro: Giovanni Monteverdi X.»
«No! Ferma! Non voglio...!»
Yukiko scomparve.
Giovanni si ritrovò nel suo ufficio, era come se si fosse appena svegliato da un terribile sogno. Si guardò attorno, agitato, e toccò le pareti della stanza, la scrivania e persino i vetri. Aveva paura, voleva essere sicuro di essere nella realtà.
«Ho fatto un sogno...? Era solo... un sogno?» Si guardò allo specchio. «Questo è reale? Tutto questo è vero o è solo nella mia testa...?» Il suo corpo era bagnato di sudore. «Dimmi che è reale, ti prego... Dimmi che era solo un sogno...» I suoi occhi si bagnarono. «Ti prego, Dio...»
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Niente era cambiato.
Tirò un sospiro di sollievo e, sorridendo, disse a sé stesso:
«Era solo un sogno. Un terribile sogno. Mi sono immaginato ogni cosa... Ti ringrazio, Dio. Ti ringrazio per aver avuto pietà di me.»
L’uomo si sedette davanti alla scrivania e si mise ad ordinare qualche scartoffia, ripensando a quello che aveva sognato. Il terrore vagava ancora nel suo cuore, ma si stava assopendo un po’ per volta. Sentì il bisogno di camminare, aveva bisogno di respirare dell’aria fresca.
Si alzò dalla scrivania e varcò l’uscio.
«Gran Maestro!» urlò un uomo.
Il Gran Maestro Giovanni Monteverdi X si voltò e vide corrergli appresso questo discepolo con la fronte che grondava di sudore.
«Che succede?» domandò inarcando le sopracciglia.
«Io... non lo so... non ne ho idea... è successo qualcosa...» disse balbettando.
«Ma di che parli?»
«La prigioniera è—»
Yukiko se ne stava in piedi, con le mani dietro la schiena, ad ammirare le macerie di quello che, solo fino a quattro giorni fa, era il quartier generale della Congrega. La ragazza si girò e abbandonò il Gran Maestro nella sua tomba. Una tomba fatta di mattoni, cadaveri e incubi.
Il demone dall’aspetto femminile aveva una meta chiara, un obbiettivo che le stuzzicava quel palato affamato di sangue. Avanzò silenziosamente verso un destino che la attendeva sulla sommità di Adocentyn.
'Il ritorno di Yukiko' di BikoWolf |