mercoledì 12 gennaio 2022

[ITA] Capitolo 18 : Io, Oreste, Noi

Un sordo tamburo nell’orecchio è l’unica melodia in quel sanguinoso silenzio.
La mia veste è sporca di rosso e le mie mani tremano un pochino. Quel formicolio corre lungo le braccia, sale per la schiena e colpisce il volto. La scarica di adrenalina che prima muoveva il mio corpo, ora è solo un freddo brivido che scuote le mie ossa e i miei pensieri.
Le mie spalle sono pesanti, le muovo assieme al collo ma non riesco a guarirmi da quei crampi.
Forse la spada pesa troppo?
Lascio cadere la lama insanguinata. Non appena il metallo impatta con la pietra, la musica d’acciaio risveglia i miei pensieri. Mi sento come se avessi appena aperto gli occhi.
Abbasso lo sguardo.
Sul letto ci sono due corpi immobili, pallidi, uno sopra l’altro. Una donna ed un uomo. Il loro sangue ha tinto le bianche lenzuola e non cessa di scorrere.
Su un tavolo lì vicino c’è ancora la coppa con il buon vino che piaceva tanto al mio patrigno. Ho bisogno di allontanarmi da quei due corpi nudi e così mi concedo la rossa bevanda accomodandomi sulla sedia.
Il dolce vino accarezza il mio palato e illumina il ricordo delle feste nella Focide. Le belle feste organizzate da re Strofio, mio zio, l’uomo che mi accolse quando mio padre fu assassinato. Non rivedrò mai più le belle donne della Focide e non potrò mai più assaporare il buon vino partorito da quelle spensierate feste.
Abbandono la coppa sul legno e, guardando il corpo dell’uomo, mormoro:
«Sei stato tu. È stata colpa tua. È stata colpa tua, non mia.» Lascio la sedia e gli parlo come se lui potesse sentirmi. «Tu hai ucciso mio padre, tu hai distrutto la mia famiglia e sperperato le nostre ricchezze solo per conoscere le gioie del potere. Sei stato l’artefice della tua stessa disfatta, Egisto. Nel momento stesso in cui hai ucciso Agamennone, il vero re di Micene, gli Dei hanno sancito il tuo miserabile destino. L’oracolo di Delfi mi rivelò la sacra missione che mi era stata affidata da Apollo sin da quando mia sorella mi aveva nascosto nella Focide. Se non ti avessi ucciso, sarei diventato un vagabondo.»
Scorgo una ciotola in oro con dentro dell’uva fresca. Ne prendo un po’ e mi accomodo nuovamente sulla sedia.
«Non ti odio... in realtà non so cosa provare quando guardo quella tua brutta faccia. Una parte di me non tollera la tua memoria, ma l’altra ti è grata perché se non fosse stato per te non avrei mai potuto incontrare Pilade. Cos’è questo sentimento? Come lo definiresti?»
Non mi risponde.
Ovviamente non mi risponde, come potrebbe? Eppure la cosa, per qualche strana ragione, mi da fastidio. Non so spiegare il perché ma sento una forte irritazione dentro di me.
Istintivamente prendo un chicco d’uva e lo lancio contro la testa di quel cadavere.
«Sto parlando con te.»
Lo faccio di nuovo.
«Mi senti, usurpatore di troni?»
Gli lancio l’ennesimo chicco d’uva e stavolta centro la sua bocca, che era aperta.
«Bel tiro...» commento sorridendo.
Abbandono la sedia.
Mi avvicino a quei due corpi. Il mio sguardo cade sulla donna ignuda. Le sposto i bruni capelli per scoprire un volto spento.
Qualcosa mi colpisce al cuore. Non so cos’è, ma non è tristezza... però ci assomiglia. Questa amarezza per una donna senza identità è senza senso. Non ho mai conosciuto questa donna, non ho mai assaporato il suo amore. Perché mi sembra di stare male?
Mi siedo sul letto e appoggio il capo di lei sulle mie gambe per guardarle bene il volto. Non mi dice niente.
Sono infastidito da quella mestizia deforme. Una parte di me vorrebbe semplicemente andarsene, abbandonare il palazzo e non fare mai più ritorno in questa stanza.
Eppure...
Eppure c’è quella voce irrazionale. C’è quel sussurro che mi dice di restare e di buttare fuori dei sentimenti che per me sono stranieri.
Faccio un lungo respiro per calmarmi.
Non so cosa dire. Appena apro bocca, dico la prima cosa che mi viene in mente:
«Ciao, mamma.»
La donna che tengo fra le braccia è Clitennestra, mia madre. Vedova e assassina di Agamennone nonché amante di Egisto.
Non ho memorie di lei.
So che mi ha dato la vita solo per togliermela.
Tutto il resto è buio.
Appoggio la mano sul ventre dentro il quale fui accudito. Lo accarezzo e dico a quella donna:
«I figli non dovrebbero uccidere le madri, come le madri non dovrebbero uccidere i propri figli. In una famiglia ci si dovrebbe amare e proteggere vicendevolmente... questa famiglia è sporca di sangue e corrotta dal desiderio peccaminoso.» Faccio una pausa per asciugarmi quelle poche lacrime che mi bagnano lo sguardo. «Io non conosco la tua storia, so solo che tu hai tradito mio padre per spassartela con un uomo più giovane e privo di virtù. Hai abbandonato me solo perché hai ceduto alla passione. Hai disonorato mio padre, il suo castello e la sua famiglia...»
Abbandono la donna su quelle lenzuola bagnate di rosso. Mi pulisco le vesti e raccolgo la spada.
Non voglio più stare nella medesima stanza di quei due miserabili. Il mio unico desiderio è andarmene e vivere la mia vita.
«I figli non uccidono le madri... ma per quello che mi riguarda, tu non sei mai stata mia madre.»
Mi dirigo verso l’uscita con aria trionfante. Ho fatto giustizia e sono pronto a tornare dal mio amico che mi attende fuori dal palazzo.
Inciampo.
Cado ai piedi dell’uscio. Se non fossi stato attento mi sarei ferito con la mia stessa spada. Mi rimetto in piedi e sono su tutte le furie. Mi giro e sferro un calcio contro l’ostacolo.
«Pezzo di merda!»
Non è un oggetto.
«Ah!» esclamo indietreggiando.
Non è un oggetto.
«Ma che...? Cosa...?»
Ha il corpo di una di cinque anni al massimo. L’esile figura è sdraiata su una macchia rossa. I suoi occhi sono bagnati ma vuoti, sembra che mi stia fissando.
Eccola che ritorna. La scarica di adrenalina che avevo perso, ma stavolta è accompagnata da una vivace paura che mi afferra la gola; il mio cuore scalpita come un folle.
Che cosa ho fatto?
La mia lama aveva spezzato la notte di passione di Egisto e Clitennestra, e aveva fatto giustizia.
Ma chi è costei? Perché il suo corpo è ai miei piedi?
Mi guardo attorno, cerco disperatamente una risposta... e la trovo. Una bambola di legno, stretta fra le gracili manine della bambina.
Era la prima cosa che avevo visto dopo aver fatto giustizia.
Una bambina di nome Elena, la figlia di mia madre e di Egisto. Aveva sentito il rumore e le urla ed era venuta per assicurarsi che i suoi genitori stessero bene.
Guardo la mia spada e ricordo perfettamente la mossa che ho fatto per trafiggerle il cuore. Abbandono la lama ai miei piedi. Sono scioccato, fatico ad emettere anche il più semplice suono dalla bocca; i miei muscoli sono paralizzati. Di colpo le spalle tornano a pesare e sento il bisogno di sedermi... e anche di vomitare.
Non appena provo a muovermi sento un sussurro. Una voce femminile fa il mio nome.
«Chi è?» domando preoccupato.
Afferro nuovamente la spada e sono pronto a combattere.
Nessuna risposta. Esco dalla stanza e non vedo nessuno. Pilade ha fatto un ottimo lavoro con le guardie, è impossibile che qualcuno si sia accorto della mia presenza... ma preferisco non tentare la fortuna ad oltranza. Me ne vado.
Non appena abbandono la camera da letto sento nuovamente quella voce femminile. Stavolta è un mormorio più forte. Sembra essere alle mie spalle.
«C’è qualcuno?» domando girandomi.
Impugno la mia spada con decisione, la lama è ancora sporca di sangue e mi sento pronto a combattere.
Non c’è nessuno.
Probabilmente mi sto immaginando tutto.  Non posso lasciare che la mia fantasia mi paralizzi, devo abbandonare il castello prima che si accorgano della morte del re. Conosco già il piano di fuga e scendo le scale velocemente, pronto a riabbracciare il mio caro amico.
Non appena il mio piede lascia l’ultimo scalino, sento la mano tremare. Mi fermo. Guardo la mano. Trema in modo anomalo.
«Che diavolo...?»
Non è la mano.
Lascio cadere la spada e mi rendo conto che è essa a muoversi, come se fosse un pesce fuori dall’acqua. L’acciaio vibra e il sangue su di esso inizia a bruciare.
Non so come spiegare un simile fenomeno, ma non ho intenzione di restare lì fermo come una statua. Cerco subito una via d’uscita.
Improvvisamente sento un urlo disumano. Dal sangue sulla lama fuoriescono tre figure femminili senza occhi né naso; sono donne fatte di sangue che iniziano a girare attorno a me e continuano ad urlare, come delle matte.
«Basta! Basta!» esclamo io mettendomi le mani nelle orecchie. «Andate via! Basta!»
Le creature non mi ascoltano e continuano ad emettere quei versi terrificanti che paralizzano il mio corpo. Ogni osso della mia carne si raffredda, ogni fibra dei miei muscoli vibra, il mio fisico viene attraversato da intensi crampi. Il sangue nelle mie vene sembra voler uscire e preme nelle mie braccia e nelle mie gambe. La sofferenza è insopportabile.
Mi strappo le vesti e urlo:
«Uccidetemi! Uccidetemi!»
Le tre creature, allora, mi trafiggono il petto con una violenza selvaggia. Mi dilaniano il torace e mi fanno patire dolori indescrivibili. Le posso vedere... le posso sentire... stanno entrando nel mio corpo... stanno invadendo ogni fibra del mio essere.
«No...! No!» esclamo io in preda al panico.
Ma non posso impedirlo.
Ormai è troppo tardi.
Quando la sofferenza abbandona il mio corpo, le loro urla pervadono la mia testa. Un costante grido, simile al latrato di una bestia famelica, tartassa la mia mente. Non posso accettare una simile sofferenza. Avrei preferito morire... e non è troppo tardi.
Afferro la spada e tento di trafiggere il mio cuore, ma qualcosa me lo impedisce. Una specie di scudo, a me invisibile, ferma la lama prima che questa possa raggiungere la carne.
«No...»
Io mi abbandono al pavimento. Urlo dalla disperazione... chiedo il perdono per il peccato commesso, ma nessuno mi sente, nessuno mi assolve. Le grida nella mia testa vanno avanti, continuano incessantemente ed io, dolorante, mi chiedo per quanto ancora dovrò patire questa ingiusta punizione.
...
...

«Il tuo tempo è giunto al termine, Oreste» dice quella gigantesca creatura demoniaca.
Dopo tanto tempo, finalmente, lamia testa è libera ed è quasi ironico che sia stato tutto a causa di un mio nemico. Quel demone con l’aspetto di lupo mi ucciderà... lo so. Non sono abbastanza forte per riuscire a combattere un simile nemico. Io sono solo un uomo senza nulla di speciale, mentre la mia avversaria è un antico demone con poteri straordinari.
Eppure...
Eppure c’è quella voce irrazionale che mi ordina di dare il massimo. Io devo sopravvivere per potermi godere questa libertà che mi sono guadagnato. Voglio tornare a vivere come una volta, voglio chiedere al Sacro Graal di ridarmi quella felicità... quella spensieratezza che avevo quando stavo con il mio miglior amico nel castello di mio zio. Voglio tornare indietro. Voglio rifiutarmi di uccidere mia madre e quel falso re. Voglio un miracolo che renda possibile la mia vita.
«Io non smetterò di combattere, demone! Io mi guadagnerò il mio desiderio, costi quel che costi!»
Io sono pronto a lottare, ma le Erinni non sono mie alleate... sono parassiti. Il loro unico scopo è farmi soffrire per il crimine che ho commesso. Non mi aiuteranno a combattere, lo so... posso quasi leggere nel loro pensiero e concludere che esse cercheranno di tornare dentro di me.
No.
Non posso accettarlo. Non voglio sentire quelle urla dentro di me.
«Che cosa succede, Oreste? Hai già perso la tua volontà?»
Specter ha notato la mia esitazione con troppa facilità, ma non mi devo sorprendere.
«Non ho intenzione di tirarmi indietro, demone. Fai pure la tua mossa.»
«Ahah! Sai perfettamente che non riuscirai a sopravvivere al mio attacco!»
Lo so.
Anche le Erinni lo sanno.
Mi stanno puntando. Vogliono tornare dentro di me.
Sono consapevole del fatto che solo con loro io posso vincere questa guerra... ma allo stesso tempo non voglio soffrire come prima. Sono stanco delle voci, sono stanco delle urla... dei sensi di colpa. Se devo combattere, lo farò come me stesso... se devo vincere, vincerò come me stesso.
Io sono io.
Non voglio più essere ‘noi’.
Scatto in avanti. Mi lascio le Erinni alle spalle. Sento il mio Master che urla, scioccato:
«Cosa stai facendo, Oreste?! Non puoi affrontare α Specter senza il tuo Noble Phantasm!»
«Posso! Posso e lo farò! Abbi fede in me, Master!»
Ma lui non mi crede. Senza esitazione usa un Sigillo del Comando per paralizzarmi.
«Mi dispiace, ω Assassin... è giusto così.»
Le parole di Valfredo sono ciniche. Egli non può comprendere la mia sofferenza. Ma io non mi arrendo. Provo a rialzarmi con tutte le mie forze. Devo riuscire a scappare dalle Erinni. Devo sconfiggere il mio nemico da solo.
«Oreste, piantala con queste idiozie e combatti come si deve!»
Valfredo è agitato. Lui non vuole morire, glielo leggo negli occhi.
E chi è che vuole morire? Ma lui ha accettato di evocarmi e di prendere parte alla Guerra del Sacro Graal sapendo a cosa sarebbe andato incontro.
«Devi accettarlo...» gli dico io con le lacrime agli occhi.
«Ma di che stai parlando—?»
«Dobbiamo accettare tutti il prezzo delle nostre scelte.»
Mi rivolgo al gigantesco demone dall’aspetto bestiale e gli urlo con tutte le mie energie:
«Uccidimi!»
La bestia apre le fauci e vomita una fiamma blu. Il suo calore invade il mio corpo. Quella bruciante sofferenza è la cosa più bella che abbia mai provato.
Io sto morendo... libero.

'Io, Oreste, Noi' di BikoWolf

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